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La mamma di Zeqo in cima ai cornioli

Gentiana Minga Gentiana Minga
9 Febbraio 2023
Lasgush Poradeci

Lasgush Poradeci

Lasgush Poradeci è lo pseudonimo del poeta albanese Llazar Sotir Gusho (Pogradec, 27 dicembre 1899 – Tirana, 12 novembre 1987). Poradeci iniziò gli studi a Pogradec nel 1908 per poi iscriversi alla scuola di lingue di Monastir (allora parte dell’Impero Ottomano). Ritornato a Pogradec, dopo la prima Guerra Mondiale, si trasferì, per volere del padre, presso Lycee Leonin di Atene per completare gli studi. Nel 1921 si iscrisse alla Şcoala Naţională de Arte Frumoase di Bucarest.

Nel 1924 il governo Rumeno gli assegnò una borsa di studio che gli permise di iscriversi al corso di filologia romano-germanica presso l’università di Graz, in Austria. Laureatosi nel 1933, l’anno seguente rientrò in Albania dove iniziò ad insegnare arte in una scuola secondaria di Tirana.

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Dopo aver perso il lavoro nel 1944, iniziò a collaborare come traduttore con la casa editrice statale Naim Frashëri. Ritiratosi nel 1974, morì in povertà nel 1987.

Poeta tra i più ispirati della sua generazione, contribuì al rinnovamento della poesia albanese con le sue suggestive liriche raccolte in “Vallja e yjeve” (“La danza delle stelle”, 1933) e “Ýlli i zemrës” (“La stella del cuore”, 1937). Riconoscimento postumo è il volume “Vepra letrare” (“L’opera letteraria”, 1990) che raccoglie suoi testi editi e inediti. Di argomento prevalentemente sentimentale, le sue liriche si arricchiscono di riflessioni su temi esistenziali di portata universale.

Gentiana Minga dedica il racconto La mamma di Zeqo in cima ai cornioli alla sua figura.

Il Poeta era un uomo che gradiva i cespugli anche in autunno, le loro spine e i castelli, i capotti lunghi e le passeggiate notturne. Trascorse i suoi ultimi anni tra Tirana e Pogradec, il paesino lacustre in cui era nato, in compagnia del suo cagnolino, un maltese di nome Ciuci, amico fedele dopo la perdita della moglie, Nafije. A una mia amica d’infanzia, aveva raccontato come un giorno si erano presentati entrambi davanti allo sportello del comune.

Lui con il suo celebre bastone e con il suo cagnolino lavato e pettinato per bene. Il portiere, sentendone il nome, era rimasto sbalordito. Il poeta, assai vecchio, non visitava quasi mai le zone abitate e ancor meno gli uffici che disprezzava profondamente. Erano in tanti a considerarlo morto, tant’è che nei libri di storia, il suo nome, accanto a una foto sbiadita, era sottolineato con una fascetta nera.

Dunque, quel giorno, allo sportello, il vecchio, dopo aver tolto il suo borsalino nero con cui aveva tentato un paio di volte di smuovere l’aria, aveva chiesto garbatamente se poteva entrare per incontrare il sindaco. Il portiere, che osservava sorpreso i capelli nuvolosi dell’uomo e la lingua rossa del cagnolino, aveva risposto: “ Eh,no! Non entrambi!”.

Il Poeta aveva sollevato il capo facendo un cenno strano con la mano destra, come per cacciare una vespa. Poi aveva domandato, con voce delicata:

No? Non si può entrambi?

Dopo che l’altro aveva annuito, questo si era piegato verso il cane sussurrandogli:

Su, Ciuci, su caro, vai dal sindaco!

L’animale l’aveva guardato fisso negli occhi, scodinzolando senza muoversi di un passo. Dopodiché, nel vederlo dirigersi fuori con i pantaloni larghi alzati sulla camicia grigia appena sotto il petto, l’aveva seguito. Oltre i vetri, uno accanto all’altro, erano spariti.

Ebbene, si diceva che amasse cucinare gli spaghetti. Qualche malalingua affermava che questa fosse solo una scusa per far venire la barba a chi lo infastidiva con delle visite interminabili. Lo accoglieva invitandolo a sedersi, per poi sparire nell’altra parte della casa per un paio d’ore. Al rientro pareva sinceramente sorpreso nel vedere una persona ad aspettarlo.

Sempre cordiale e delicato, gli si sedeva dinanzi e cominciava a raccontargli la ricetta dei suoi spaghetti. Pur non essendo una descrizione di pochi minuti, l’ospite pare che ascoltasse incantato. Narrava di come il sugo dovesse essere condito, con una o con un’altra spezia e di come, nella variante albanese, fosse necessario tener conto di non levare gli spaghetti troppo al dente per un anziano di una certa età.

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Così spiegava con raffinatezza:

Prima di tutto si pensa al sugo, in quanto è il cappello dell’opera

Andava matto per gli spaghetti con cipolle stufate e spezzatino di agnello. A suo dire, di mattina presto aveva già tagliato la carne fresca e tenera in pezzettini da un centimetro, facendoli soffriggere lentamente con olio d’oliva e un ricciolo di burro. Nel frattempo, metteva il naso fuori dalla finestra, respirando profondamente e contemplando il lago.

Appena i pezzettini di agnello diventano caramellati fuori e succosi dentro, toglierli immediatamente dall’olio!

raccomandava sbirciando oltre le spalle dell’ospite.

Ma – e alzava la voce– quello che è rimasto oltre la carne, insomma il grasso, il sugo, deve avere il colore del tramonto! Ha capito? Il colore del tramonto! Su quel tramonto buttiamo delle cipolle tagliate a grossomodo. Non fini! Non usi la mezzaluna! Tagli in cerchi rotondi e alti. Cosi! Ovviamente, questi cerchi bianchi polposi devono diventare color cioccolato, gusto piccante e salato quanto basta! Mi sta seguendo carissimo? Si rende conto?

e rivolgeva i suoi occhi piccoli e furbi verso l’altro.

 I pezzettini di carne vanno mescolati con cura con la cipolla bella croccante e dentro succulenta

Narrare degli spaghetti dorati saltati in padella era una goduria per la sua lingua appuntita e il suo stomaco vuoto. A volte si fermava d’un colpo e non apriva più bocca. Stava con le mani dentro le tasche, in cui si diceva portasse una pillola di cianuro

nel caso venissero ad arrestarmi i comunisti…

Altrimenti, appoggiava una mano sopra le ginocchia e con l’altra accarezzava con gli occhi pieni di affetto Ciuci, che si addormentava sui suoi piedi. L’ospite si alzava solo di sera, in silenzio. Avviandosi verso l’uscita e ondeggiando di felicità sulla “Via del fiume” balbettava :” Oh Santo Dio! Oh Dio, Dio, Dio!! È un grande! Grande!

Nel frattempo, il Poeta sbirciava dietro la finestra per assicurarsi che l’altro fosse andato sul serio. Dopodiché, fischiava richiamando Ciuci e una volta afferrato il bastone, si avviavano verso l’uscita, per poi proseguire a passi lenti fino alla riva del lago.

Arrivati sul posto, si sedeva taciturno sulla panchina, attento a cogliere qualche suono o qualche luce del paesino di fronte. Di volta in volta alzava gli occhi fanciulleschi, sollevando il braccio ossuto verso il cielo, come per far vedere a Ciuci “Il ballo delle stelle” e “La stella del cuore”.

Racconto tratto dall’antologia Premio Prato città aperta, edizione Marco del Bucchia, 2016

Argomenti: Gentiana MingaLasgush Poradeci
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