La ricostruzione della drammatica storia della prigionia vissuta durante il periodo del totalitarismo albanese nel libro La rivincita di Bashkim Shehu, pubblicato in Italia nel 2019, per la traduzione di Paolo Rago. Il volume ha ottenuto importanti riconoscimenti come il Premio Balkanika 2015 (in Albania) e la menzione speciale della giuria al Premio Méditerranée Étranger nel 2018.
La trama
Un uomo deve raccontare la storia di un altro uomo, Aleks Kastra, che è stato un suo compagno di cella durante la permanenza in carcere o nei campi di rieducazione, come spesso venivano chiamati dal regime dittatoriale albanese. Ed è proprio Kastra a consegnare all’amico (che sarà il futuro narratore), con cui ha stretto un forte rapporto, un memoriale, con la promessa di lavorarci insieme. Patimenti, negazione della libertà, soppressione dei più elementari diritti umani, sono solo alcune delle cose trascritte dal prigioniero durante la detenzione, il cui desiderio è lasciare una testimonianza ai posteri di quanto avvenne tra quelle quattro mura.
Tuttavia, la scrittura non è chiara, il manoscritto non segue alcun ordine e in alcuni punti va totalmente reinterpretato. L’unica cosa realmente limpida è l’urgenza che Kastra sente di raccontare quanto accadde a lui e ai suoi compagni di sventura. L’uomo era conosciuto come un buon scrittore prima che la censura intervenisse sulla sua opera e sulla libertà personale; il suo unico racconto, pubblicato prima del carcere, si intitola La rivincita.
Aleks affida il manoscritto all’amico prima di partire per un viaggio durante il quale trova la morte, lasciando il lavoro incompiuto nelle mani del narratore che si ritrova, quindi, a dover sciogliere diversi nodi: oltre all’interpretazione del manoscritto, sorge un’ulteriore difficoltà legata a un altro racconto contenuto nel materiale consegnatoli, che è una sorta di confessione fatta da Padre Stefano un prete cattolico, anche lui in carcere, allo stesso Kastra. L’amico, si ritrova a dover lavorare su uno scritto complicato, che a volte non sembra seguire un senso logico, colmo di salti temporali e a doverlo fare da solo, perché il suo autore è morto.

L’importanza della memoria
Un libro complesso, di natura autobiografica (pur non essendo la primaria intenzione dell’autore), questo La rivincita di Bashkim Shehu, la cui lettura non si presenta semplice. La penna è ferma, lineare, fredda, cruda a tratti kafkiana, donando alla narrazione la giusta scorrevolezza, senza penalizzare lo spessore del racconto: ogni parola è ben scandita e risuona come un tocco di campana forte e chiaro.
Shehu pone il lettore in una posizione di ascolto prima, per coinvolgerlo emotivamente dopo, affinché possa assorbire tutte le sensazioni e le emozioni scaturite dalle crudeli esperienze vissute dai prigionieri. In realtà, non si trascina chi legge nella storia narrata, bensì, lo si pone di fronte alla necessità di dover assimilare quanto è scritto, per poter avere una visione d’insieme, che nulla ha di giudicante e che non vuole stimolare sentimenti di commiserazione, avendo gli unici obiettivi di creare una duratura consapevolezza e di generare memoria. Nulla deve essere dimenticato e i giovani devono poter apprendere da chi ha potuto raccontare con la giusta cognizione di causa.
Il sofferto alter ego
Lo stesso Aleks Kastra è cosciente di avere tra le mani una grande testimonianza, un grido contro le ingiustizie subite dagli intellettuali, dal clero e da tutta l’umanità albanese durante il totalitarismo. Un’opera che deve essere divulgata, che deve arrivare ai posteri con una certa urgenza.
Egli stesso si rende conto di quanto la documentazione in suo possesso sia ingarbugliata, specialmente nella prima parte, in cui da voce a Padre Stefano, una figura martoriata e ingiuriata, che merita vendetta. Per questo, chiede aiuto all’amico, che non riesce a esimersi dall’impegno che gli viene consegnato, anche quando l’autore non c’è più, diventando così, il narratore in prima persona, una maniera decisamente più efficace di raccontare.
Shehu crea il personaggio di Aleks Kastra, inizialmente con l’idea di narrare la storia attraverso le parole di un altro. Durante la stesura, la figura principale diventa il suo alter ego e se vogliamo, quello di tutti coloro che hanno patito simili sofferenze, perché, infondo, ciò che lo scrittore vuole raccontare è la sua storia e principalmente quella di tanti. In quel manoscritto confusionario c’è la sofferenza e il dolore di un uomo privato della dignità, incarcerato dal regime per circa dieci anni, che ha visto la famiglia stroncata dalla furia totalitarista. A ogni modo, si evince quanto non sia stato importante per Shehu porre in evidenza la propria persona, bensì, la storia, per dare voce non solo alla propria afflizione, ma anche a chi non ha avuto la possibilità di parlare.
L’innovazione della penna
Secondo il parere espresso dallo studioso prof. Matteo Mandalà, leggendo il libro in lingua originale, si nota come Shehu sia stato capace di rompere gli schemi predefiniti della sintassi, dando alla scrittura albanese un aspetto nuovo e rivoluzionario.
Per la stesura del romanzo, Shehu si ispira a due libri: Il sangue di Abele. Vivi per testimoniare, il diario di Padre Zef Pllumi, che descrive la vita nelle prigioni comuniste della dittatura e Nocturno de Chile di Roberto Bolano. Quest’ultimo vede protagonista Sebastian Urritia Lacroix, prete cileno e membro dell’Opus Dei , che racconta, durante una notte insonne e tragica, ben cinquant’anni della sua esistenza e della vita del suo Paese. Una narrazione drammatica, nel corso della quale ogni maschera viene calata. È qui che entra in gioco la novità stilistica proposta da Shehu: riportare i fatti di questi libri e le emozioni vissute dai personaggi in maniera diversa, vivida e nuova.