Per gentile concessione de Altromondo Editore di qu.bi Me, pubblichiamo la prefazione di Giusi Sammartino al libro ‘Testimoni di una tragedia‘ di Sokol Jakova curato da Valbona Jakova
Ecco il testo:
Il 1964 è ancora troppo lontano dall’anno che segnerà la caduta del muro a Berlino. A Tirana ancora non è possibile sentire il rumore del vento di riforma e il fermento di libertà che arriverà in Europa quasi un quarto di secolo più tardi. È troppo presto per tutto questo e l’Albania, ma anche tutto il continente europeo dovranno ancora aspettare.
Nel 1964 nella capitale albanese dei giovani tornano dalle vacanze per ricominciare insieme il ritmo abituale della vita scolastica. Forse stanno nascendo tra loro i primi amori, si aprono alla vita e cercano sé stessi. Sono giovani e ancora non si accorgono della politica, della realtà e delle possibili interpretazioni distorte dell’una e dell’altra.
Questo, l’estate del 1964, a fine agosto, è lo scenario che apre il romanzo di Sokol Jakova, uno scrittore per ragazzi, ma qui diarista di un periodo della vita personale sua e di altri ragazzi e ragazze (in particolare di una ragazza) che con lui soffrono, seppure tutte e tutti non consapevoli fino in fondo, la violenza e l’isolamento dell’Albania ai tempi di Enver Hoxha.

Un romanzo-verità. Già dal titolo: Testimoni di una tragedia. È in effetti una storia di famiglia, la famiglia Jakova che include anche la traduttrice, Valbona, cugina dello scrittore e della protagonista, Vjosa: “mia cugina è stata molto sfortunata, era delicata e di una bellezza rara”, dice di lei Valbona che in Italia, dopo il suo arrivo a Brindisi con una delle navi di cui sicuramente non abbiamo perso memoria, ha riscoperto il suo amore per la poesia. Ha pubblicato più di una raccolta di versi sia qui che in Albania e ha iniziato questo percorso di traduzione proprio dalla poesia con i versi di un poeta italiano, Giuseppe Ungaretti, che Valbona Jakova ha portato a conoscere nella sua terra, al di là del mar Adriatico.
Tornando al romanzo, l’incipit fa presagire, deviando apparentemente il lettore, a un romanzo di amicizie e d’amore: “L’estate stava finendo, come tutte le altre, tranquilla, monotona. Senza colori e noiosa. Anche quel vuoto pomeriggio si trascinava piano, come una vecchia stanca e malata. Il frinire delle cicale, che durante il caldo insopportabile ti dava sui nervi, era affievolito. Si sentiva una brezza fresca, piacevole”. Invece, con lo scorrere delle pagine lentamente ci si accorge di qualcosa che disturba un’atmosfera apparentemente tranquilla, come un mare calmo.
Un turbamento che inizia piano piano, che si insinua nei loro discorsi di ragazzi e ragazze ancora adolescenti che si domandano, sempre con una certa leggerezza, il perché delle situazioni che si presentano intorno a loro. Questi ragazzi osservano la società circostante e si chiedono i loro perché. Perché si deturpano le spiagge del Paese con cabine simili a pollai, come vengono definite nel romanzo, perché si accetta l’estetica delle case, lontana dalla tradizione locale e chiaro, fin troppo evidente richiamo ad un‘architettura che rimanda fortemente a regimi lontani. Perché, soprattutto, un padre muore (all’inizio non si parla di omicidio) troppo presto, a quarantasei anni e è considerato nemico del popolo pur avendo combattuto nella resistenza nazionale.
Ricomincia la scuola e il desiderio di rivedersi è tanto, sono i ragazzi e le ragazze di sempre, e cercano con tutta la forza della loro età di vivere la spensieratezza che è loro dovuta. Ma tra le amiche e gli amici che si vogliono di nuovo abbracciare dopo l’estate sentono che si frappone un ostacolo che si erge come un muro: tanti di loro appartengono a famiglie giudicate toccate, segnalate anche loro come nemiche del popolo.
Il turbamento entra più esplicito e direttamente si evidenzia proprio a scuola, istituzione sociale per eccellenza. Lì ci accorgiamo con più chiarezza che qualcosa non va come dovrebbe. Un idolo dei giovani di quell’epoca, osannato nel mondo, negli U.S.A. e in Europa, Elvis Presley, viene nascosto della sua vera identità, diventa autarchico, un affascinante cantante figlio dell’Albania. Tutto si trasforma in un fatto grottesco. I ragazzi e le ragazze, loro soprattutto, catturate anche dal suo aspetto, sono ancor più prese da questo personaggio che, perché proibito, diventa anche simbolo di libertà e di evasione. Capiscono tutti che è necessario, che è obbligatorio nasconderlo. Solo un giovane professore di lingue, “con i baffi all’inglese”, accenna un consenso insieme, però, ad un’esortazione consapevole a vigilare. La scuola sembra essere immersa in un clima di cospirazione: “All’improvviso entrò in classe il professore d’inglese…. Ha visto che stavamo guardando la foto di Elvis, la guardò anche lui con un leggero sorriso. Elvis, disse, le sue belle canzoni le ascolta tutto il mondo poi, strizzando l’occhio come preavviso, ci disse: «state attenti, eh?!» Sì, per noi era tutto chiaro, se le sue canzoni erano proibite, era proibita anche la sua fotografia. Dopo l’ora d’inglese la foto del cantante magico passò di nuovo di mano in mano. Proprio quando un gruppo di ragazze che avevano fatto cerchio intorno a Maddalena seduta al primo banco stavano ammirando il bel cantante, entrò in classe la segretaria del partito, quella dei lavori manuali. Le ragazze si sono allontanate in fretta e la foto è caduta per terra. «Che cos‟è questo?» Disse lei e si piegò per prendere la foto. Iniziò a guardare con molta attenzione. «Chi è questo?» Chiese ancora. «È un cantante», rispose Niko. «Albanese?» «Certo che è albanese», intervenne Dini. «Molto avvenente, mai visto. Come si chiama?» «Si chiama Ylvi Prasi», disse molto serio Dini senza batter ciglio. A questo punto nessuno seppe trattenersi e scoppiò una grande risata”. Come ci avverte anche la nota a fine pagina, nel dialetto di Tirana il nuovo nome locale/autarchico per il mito dei giovani dell’epoca suonerebbe come Porro il contadino: davvero una situazione grottesca.
L’altro problema, che poi è il problema di fondo delle cause della sofferenza dei protagonisti di questo libro, è legato alla questione della libertà di culto e di espressione in proposito e in senso ampio. La famiglia Jakova ha le sue radici a Scutari che, per chi conosce anche un minimo la Storia albanese, è risaputa come una zona di alta presenza di credenti di fede cattolica. Il problema è esplicitamente trattato due volte nel romanzo. Una volta nella prima parte l’autore ricorda la nonna e l’affezione per i suoi momenti di fede: “Mia nonna, che riposi in pace, è morta alcuni mesi fa a casa di mio zio Filippo a Durazzo, credeva in Dio e sotto il cuscino teneva sempre la Bibbia e il rosario. Anche sua sorella, zia Tonina credeva in Dio e se sentiva la radio il Papa che diceva la messa, si inginocchiava come se fosse in chiesa. Sono bravissime persone, ma dov’è il male se credevano in Dio? Erano nemici, erano traditori, chi tradivano? Io da parte mia, non credo in Dio, anche il mio amico Dini, non ci crede. Ci sono quelli che credono e quelli che non credono. Lasciamoli liberi nelle loro scelte. Perché prendono di mira le scelte, qual è il pericolo?”. Poi proprio nelle ultime righe del libro, l’osservazione si fa ricordo più personale. L’autore, ormai ufficialmente legato alla sua ragazza, Linda, che è presente in tutto il racconto, sensibile e bella, molto vicina alla sofferenza avvertita dello scrittore: “Tu mi conosci bene – dice l’autore/protagonista a Linda – sai come mi impressionano certi eventi. Nella nostra facoltà, stanno preparando una grande campagna contro la religione. Vogliono radere al suolo le Chiese e le moschee. Vogliono tagliare la barba ai preti, agli imam e ai dervisci. Dopo portano tutti ai lavori forzati nei campi e nelle paludi per guadagnarsi il pane». Lei si è messa a ridere con tanta ironia e dispiacere. «Ah! Miri, loro se riescono a fare impazzire l’uomo, sapranno fare anche peggio di così»”. Il problema è dunque allargato ad ogni forma di fede e questo viene giudicato e confermato da chi scrive come limitativo libertà personale.
Ritorniamo all’analisi del libro. Il racconto si dipana in vari capitoli, meno di una quarantina, divisi in due parti. La prima parte risulta più leggera e appare, come si è detto più un racconto delle vite di questi ragazzi spensierati che trascorrono con una certa leggerezza e serenità la loro esistenza scolastica e i loro primi innamoramenti, le prime esperienze fisiche, seppure calmierate da una legge non scritta sulla libertà sessuale delle ragazze, controllate dai maschi della famiglia. Ma, bisogna dirlo, la situazione in tale proposito non è così lontana da quella che c’era all’epoca anche in Italia e che poi è stata fortemente contestata con le rivolte giovanili e le critiche sociali legate ’68 e, soprattutto, con il conseguente movimento femminista.
I capitoli del libro sono scanditi dai mesi che all’inizio si susseguono in modo conseguenziale e ritmano la vita di quei giorni occupando, ciascun mese, anche più di un capitolo. Poi, dopo il primo gennaio del 1965, lo scrittore ci fa passare a maggio, dello stesso anno e quindi, con il capitolo 23, a luglio del 1966 dove finisce la prima parte del libro. “È andato via ancora un altro anno, svanito come un volatile selvaggio – scrive l’autore proprio ricordando gli anni passati – Come un’aquila rapace con artigli affilati. Strano, ma com’è andato via così veloce? Adesso che sto scrivendo queste righe, dai tempi della prima giovinezza, sono passati quasi trent’anni. A me sembra di vivere ancora adesso gli eventi di quei tempi. Sono ancora così freschi nella mia mente”.
Passando alla sua seconda parte il libro/diario si fa più triste e cupo. Entra in pieno la parte più brutta e sfortunata della storia di Vjosa quando fallisce il suo fidanzamento, per volere superiore, in quanto obbligano di fatto il fidanzato, un insegnante di successo a Berat, la città dalle mille finestre, a lasciarla proprio alla vigilia della promessa di matrimonio. In questo modo Vjosa viene direttamente colpita e ormai irrimediabilmente avviata a uno stato di depressione delle più profonde.
La vita di Vjosa Jakova, la figlia di Tuk, ucciso (per avvelenamento, ma purtroppo l’omicidio non è ancora di fatto provato!) con l’accusa di tradimento al popolo, sembrava solo apparentemente non toccata dalle conseguenze che avevano decretato la fine paterna. Sarà infatti lasciata libera di avviare i suoi studi universitari, a casa dello zio, anche lui scrittore e padre dell’autore di questo romanzo.
Ma il destino sembra preparare i suoi conti. Appare un uomo, metaforicamente e simbolicamente rappresentato, quasi pittoricamente ritratto tanto è viva l’immagine fosca, con gli occhiali neri. Sottoporrà, come realmente è successo, la giovanissima e già indebolita e tradita Vjosa, a un interrogatorio senza uscita. Ne viene fuori di lui una figura senza nome, ma estremamente violenta e persecutoria, come un fantasma sarà un’orribile presenza nella vita di questa ragazza innocente, vittima di una vendetta perpetra, a singhiozzo, all’interno di una famiglia che il Potere politico centrale ha voluto sopprimere e, di fatto, poi dimenticare.
Sarà Tamara, la cugina di Vjosa, a testimoniare la sofferenza di questa ragazza, pressata dagli interrogatori, stupita di nuovo dalle accuse contro il padre ormai morto. Tamara lo farà in due capitoli che sembrano stilisticamente, in senso contrario, rimandare alle confessioni allora gioiose, al cugino, nelle primissime pagine del libro. Allora Vjosa era appena arrivata a casa dello zio e del cugino, accompagnata dalla mamma e felice di andare all’università, di iniziare il corso di biochimica, ma soprattutto, lo racconterà al cugino con il quale divide la stanza, appagata dal suo amore per il bel professore di Berat e dalle speranze per il suo futuro che le appariva certo.
I ragazzi ci guardano viene da dire, parafrasando il bellissimo film di Vittorio De Sica. Lo scrittore, il ragazzo di allora, insieme ai suoi coetanei e alle sue coetanee, osserva e inizia a formarsi un’opinione sempre più precisa della realtà politica e sociale in cui vivono. Alla fine del libro ormai sono tutti e tutte all’università e il loro mondo non è più mediato, ovattato dal loro stato adolescenziale.
Riflette l’autore e tira le sue conclusioni, con la voce di allora, ma con la malinconia che ancora rimane: “Supponiamo che mio padre non ami il padre del mio amico Dini, anch’io non devo amare più il mio amico?! Ma la mia mente deve essere per forza prigioniera delle scelte imposte ed io non posso avere la libertà di lasciar funzionare il mio cervello e il mio cuore secondo i miei desideri?! Oh, scusatemi, esiste la lotta delle classi, come nel medioevo, ricchi e poveri. Combattenti in un piccolo territorio per la libertà, fare rivoluzione, fare guerra. Contro chi poi? erano tutti poveri e disarmati di parole e quasi muti, fare guerra a tutti i costi e inventare i nemici a tutti i costi, inventare traditori in ogni angolo e denunciarli, mettere gli uni contro gli altri. Inculcare bene nella testa dei giovani che il loro amico poteva benissimo essere il nemico del popolo, il traditore del partito. Queste teorie di educazione generale spaventavano tutti, come ai tempi di Hitler, e questa ormai era l’educazione dei figli dei Grandi. Tutte queste cose le macinavo dentro la mia testa”.
Questo il pensiero che continua ad esserci e a martellare nella testa e nel ricordo dei ragazzi e delle ragazze di quegli anni, mentre Vjosa non riesce più ad uscire, a tutt’oggi, dai suoi incubi e sopravvive a se stessa. Anzi, oggi Vjosa vive a lato di se stessa, nonostante i cambiamenti storici, di cui lei non si accorgerà mai. Come scrive l’autore lasciandoci dentro l’amarezza di una sconfitta, nessuno ha pagato e ognuno ha continuato a vivere senza neppure sapere o sentirsi segnato da quello che era successo, quello di aver perpetrato e di essere stato testimone silenzioso di un crimine assurdo contro un’innocente.
Confesso di essere abbastanza digiuna di cultura albanese. Quando mi è stato proposto di scrivere l’introduzione a questo libro ho avuto subito una grande paura di non farcela. Avvertivo in me di poter potenzialmente scrivere (con tutte le esigenze di approfondimento e di preparazione) sì intorno a un romanzo, ma non mi sentivo pronta a commentare una storia vera che riguardava un paese come l’Albania e persone che avevano sofferto, elementi sui quali possedevo quella conoscenza minima che si apprende sui libri di scuola, ma non altro. Ho sentito allora il bisogno di studiare e di documentarmi ancora di più rispetto a un’analoga richiesta come poteva essere, legata, quale sua maggiore esigenza, solo all’immaginario.
Avendo pubblicato da poco un libro di storie di donne non nate in Italia (e proprio grazie a questo ho avuto questo per me bellissimo invito) ho contattato alcune di queste amiche, molte di origine albanese, che mi hanno indicato testi da leggere e persone con le quali parlare per capire meglio Shqipëri , il paese delle aquile, e i suoi figli, gli Shqipëtari, i figli e le figlie dell’aquila, come detta la bellissima favola legata alla tradizione albanese che porta lo stupendo rapace, a due teste, nero in uno sfondo rosso, come simbolo, sulla bandiera del Paese .
Volevo capire soprattutto l’atmosfera albanese nel periodo storico e temporale preso in esame nel romanzo. Comprendere meglio le basi dell’insediamento del dittatore Enver Halil Hoxha e il perché dell’eliminazione di molti di coloro, come il padre della protagonista di questa storia, che avevano combattuto la guerra e avevano partecipato alla lotta partigiana per liberare il Paese dal fascismo e dal nazismo. E poi mi sono chiesta, e mi piaceva, chiarire, sapere da chi l’Albania la conosce di più e più da vicino, un’altra curiosità più attuale, legata alla presenza storica degli albanesi in Italia e degli italiani in Albania (nella regione di Scutari, cattolicissima). Anche sotto l’influenza del ricordo degli arrivi di tanti cittadini e cittadine di questo Paese venuti sulle nostre coste, soprattutto le vicinissime coste pugliesi, con quelle che oggi chiamiamo le carrette del mare, alle quali negli anni Novanta non eravamo ancora abituati.
“Gli anni presentati nel romanzo – mi ha spiegato Darien Levani, un avvocato, da molti anni a Ferrara, scrittore e giornalista, vicedirettore di Albanianews, premiato più volte anche in Italia per i suoi romanzi – è il periodo nel quale Enver Halil Hoxha, che aveva iniziato la sua dittatura in Albania nel 1944 subito dopo la guerra, fa un po’ i conti con se stesso. C’era con lui ancora la gente che aveva fatto la guerra, erano gli ex partigiani. Si trattava di prendere e mettere con decisione da parte tutto questo arsenale di uomini e armi, per lui ormai pericoloso, e costruire lo Stato come lo intendeva lui, collocando al loro posto, nelle posizioni chiave, altri uomini di sua fiducia. Hoxha voleva essere libero di riscrivere la propria Storia e quella del partito e voleva farlo a proprio modo, senza testimoni scomodi. I vecchi compagni, alleati di guerra venivano man mano sostituiti da burocrati e funzionari che non avevano fatto la guerra e che potevano meno controllare la sua azione e obbedire facilmente senza contestare i suoi ordini e che non lo avrebbero, per questo, messo in pericolo. Ciò che ne è venuto fuori è uno scenario molto falsificato. Perché l’Albania non ha fatto una vera e propria guerra, ma una guerriglia, sia contro i fascisti che contro i nazisti. Non aveva la forza dii gesti eclatanti. E invece Hoxha voleva dare l’immagine di uno Stato forte e arrogante capaci di gesta eroiche, come si addice a un dittatore.
L’Albania più che comunista era stalinista – continua Darien Levani -, come essenza. Era uno Stato completamente isolato anche dal resto del mondo, compreso il mondo comunista. Era prigioniera di se stessa. Gli albanesi erano imprigionati nella loro stessa terra. Al contrario dei cittadini dei Paesi satelliti dell’Urss che potevano, per esempio, andare a studiare a Mosca, da Praga, da Budapest, potevano guardare, per quanto in modo parziale, il mondo che li circondava.
La politica estera di Hoxha – ha aggiunto ancora l’avvocato Levani – era paranoica e sospettosa e non voleva che nessun albanese andasse all’estero anche nella cerchia dei paesi comunisti. Per questo interrompe presto i rapporti prima con il maresciallo Tito e poi con l’Urss dopo la fine dello stalinismo. Solo con Stalin si trova sulla stessa lunghezza d’onda. Poi non poteva continuare perché non poteva ammettere la denuncia sui crimini di Stalin. Inizia dopo il rapporto un po’ per l’inerzia con la Cina che chiaramente accetta subito questa alleanza perchè la percepisce come una conveniente presenza nel mediterraneo che favorisce la possibilità dell’entrata della Cina nell’Onu”.
Riguardo ai rapporti con l’Italia il primo motivo della vicinanza tra i due popoli è sicuramento geografico perché l’Italia è lì. Ma l’avvocato Levani ne fa anche un’analisi storica: “Il secondo motivo di questa vicinanza è storico – dice -. I Balcani e l’Albania erano parte dell’Impero Romano. Poi quando c’è stata la sopraffazione dell’impero ottomano era nata la promessa che Garibaldi sarebbe arrivato e avrebbe aiutato l’Albania a liberarsi. È bastato questo perché nel 1811 gli albanesi prendessero le armi contro i turchi. Poi non dobbiamo dimenticare – sottolinea ancora Levani -che per tutto l’800 i mazziniani che cercavano di unificare l’Italia ed erano perseguitati si rifugiarono in Albania, a Scutari perché era cattolica. Avrebbero fatto fatica ad andare a Tirana che all’epoca era un territorio controllato dai musulmani e nella quale magari si applicava anche la Sharia. Aveva senso invece andare a Scutari che era la città più progredita all’epoca con una fortissima comunità di cattolici, il che significa chiesa e anche una vicinanza maggiore all’Italia. Quando poi sono arrivati i fascisti gli albanesi sono stati sempre capaci di distinguere gli italiani dai fascisti, cosa che non è successa con i tedeschi. Non è poi da dimenticare tutta la storia degli Arbëreshë, gli albanesi in Italia. Da lì, dai preti, da una chiesa sempre più nazionalista e anti-ottomana, partivano incoraggiamenti in lingua albanese per l’indipendenza e questo è stato il segno ulteriore per un legame sempre più stretto tra l’Italia e l’Albania”.
Ringrazio alla fine di questa mia analisi, per la possibilità che mi è stata data, soprattutto Valbona Jakova, che per tantissimi versi è legata a questo libro e mi ha invitata a scrivere questa introduzione credendo in me. Ho conosciuto e ho avuto il piacere di incontrare Valbona per un’intervista sulla sua vita e sulla sua migrazione in Italia per un mio libro di cui la sua storia ha fatto parte insieme a quella di altre donne non nate in Italia alle quali sono, come a Valbona, rimasta affettuosamente legata e, penso, da loro ricambiata.
Ringrazio anche Sonila Alushi, anche lei di origine albanese che mi ha presentato l’avvocato Darien Levani al quale va la mia riconoscenza e i miei ringraziamenti per avermi dato una visione più esatta degli avvenimenti trattati nel libro. Le belle esperienze portano sicuramente ad incontri eccellenti.
Giusi Sammartino