Quando il campanello della porta squillò, lui era seduto accanto al tavolo. Con una bottiglia di Jack Daniel’s ridotta a meno della metà. E un bicchiere vuotato. Al suono, quasi timoroso, seguì un silenzio teso ed egli pensò che l’orecchio lo avesse ingannato. Ma il campanello squillò ancora, nello stesso modo, quasi timoroso. Pensò a Dina, una delle cameriere del locale al piano terra del palazzo, un caffè-bar, all’ingresso del quale c’era scritto “Pulebardha”.
Da sei mesi, da quando cioè abitava lì, scendeva al Pulebardha regolarmente, per il caffè del mattino; ogni tanto ci andava anche di sera. A volte si fermava a lungo, sempre nella zona servita da Dina, a un tavolo prossimo alla vetrata. All’inizio si sedeva lì senza un motivo preciso, solo perché poteva osservare quallo che succedeva in strada. Neanche sapeva che il tavolo al quale si sedeva si trovasse nella zona di Dina, anzi, di quest’ultima non sapeva neanche il nome. Poi, a un certo punto, inevitabilmente ne venne a conoscenza. E quando ciò accadde, non si sorprese nel constatare, invece, di lui, Dina sapesse un bel po’ di cose. Per esempio il nome di sua moglie, noto almeno quanto la sua immagine: lavorava all’emittente televisiva Sirius e intervistava politici e personaggi di rango. “Si dice che vi siate separati e che ora lei viva da solo” si impicciò Dina dopo qualche tempo.
La trama
Bledi Terziu è un giornalista di cronaca nera, che non sta attraversando il periodo migliore della sua vita. Non ha più un lavoro, è stato abbandonato dalla compagna e vive in totale solitudine nel suo appartamento di Tirana. Un giorno la sua vita cambia e tutto parte dall’inaspettata visita di una zingara, Isabela.
L’acol è un cattivo compagno che lo spinge a voler aggredire sessualmente la giovane, che durante la colluttazione, incidentalmente muore. Bledi è disperato e cerca di disfarsi del cadavere, sicuro di non essere scoperto. In realtà, la coscienza parla per lui, facendolo cadere in uno stato di grande prostrazione mentale e la febbre sembra avere la meglio sulla razionalità. Nei suoi deliri rivede stralci della sua vita in una Tirana disordinata e confusionaria, proprio come la sua esistenza.

L’opinione
La coscienza dell’uomo e lo sconvolgimento dell’anima sono i punti focali intorno ai quali si snoda questo La vita in una scatola di fiammiferi di Fatos Kongoli, per la traduzione di Caterina Zuccaro. La confusione regna sovrana nello spirito e nella mente dell’individuo, a immagine speculare di un’Albania devastata durante il regime, privata della sua determinazione e del suo stesso volto e trainata nello scompiglio dalla cosiddetta “libera società”.
Il sarcasmo che caratterizza le opere di Kongoli lascia spazio all’amara derisione della realtà sociale, che si incarna nella figura del protagonista sballottato tra la confusa collettività e la propria pazzia.
Appare come una storia comune quella di Bledi, un uomo perso nel mondo e in se stesso, che si trasforma, rigo dopo rigo, in un racconto spiazzante: il lettore si ritrova catapultato nelle elucubrazioni più profonde del protagonista, riflesso di una società agonizzante, abbellita dalla falsa idea di sovranità.
Ancora una volta Kongoli pone particolare attenzione all’evoluzione individuale e a quella sociale, l’una lo specchio dell’altra, mettendo l’accento sulla personale disapprovazione nei confronti di un Albania che tende poco a guardare avanti e spesso a voltarsi indietro.