La vita in una scatola di fiammiferi
di Fatos Kongoli

Bledi Terziu, cronista di nera senza più un lavoro, abbandonato dalla compagna, vive da mesi nella solitudine del suo nuovo appartamento al centro di Tirana quando riceve la visita, inaspettata, di una giovane zingara.
Offuscato dall’alcol, Bledi tenta maldestramente di possederla ma la ragazza, quasi accidentalmente, muore, precipitandolo in una confusa disperazione.
Riavutosi, Bledi cerca di disfarsi del cadavere e di cancellare ogni traccia, convinto che riuscirà a farla franca. Psicologicamente provato, però, in balia di un costante stato febbrile, vede riemergere dal passato, come rigurgiti della coscienza, frammenti della sua miserabile vita.
Rivede la Tirana della sua infanzia, angusta e oppressa dal regime; quella corrotta e insensata della transizione; e quella attuale, della società “libera”, confusa tra lo scintillio delle luci e gli anfratti bui di continue nefandezze.
Senza risparmiare perversità e zone d’ombra Kongoli adotta qui, per la prima volta nei suoi romanzi, una visione beffarda anziché tragica del mondo che descrive.
Ne risulta un quadro compassionevole del dolore e dello sconcerto umani, attraverso le vicende di un povero diavolo percosso dai venti della modernità e vittima della propria follia.
L’intensità della storia albanese, a partire dal regime di Hoxha, passando per il periodo post-comunista, fino ad arrivare all’anarchia del 1997 e al successivo periodo di occidentalizzazione, non è il semplice sfondo del romanzo ma la chiave di lettura che accorda il protagonista con ciò che gli si riversa addosso tra aspirazioni e dura realtà.
La storia di Bledi Terziu, raccontata da egli stesso come una confessione a cuore aperto e a briglia sciolta, senza filtri e orpelli narrativi, investe il lettore trascinandolo nel flusso di coscienza destabilizzante del protagonista, non tanto per un gioco all’immedesimazione, ma perché rende vivida e realistica l’esperienza narrativa.
La società classista e razzista, gli attivisti di quartiere, l’icona sacra in ogni casa, l’università limitata, la corruzione dilagante, sono la quotidianità a cui o ci si adatta o si soccombe; quando a partire dal 1990, per Bledi confine tra preistoria ed età moderna, la situazione economica e politica migliora il panico esistenziale assume nuove forme, quelle della notorietà, dei vip e dei lustrini.
Consapevolezza e incoscienza si alternano in un limbo di suggestioni che rendono pulp, grottesco e allo stesso tempo intenso un racconto che il protagonista non controlla ma attraversa in maniera lenta e confusa, “come una lumaca alla ricerca del guscio perduto”, come chi si è perso e cerca a fatica di recuperare il bandolo della matassa.
Kongoli è brutale, gioca con le immagini dissacranti, con gli odori rivoltanti e i corpi nudi, con la sensualità più terrena e con l’ingenuità dell’infanzia, mischiando tutto in maniera ironica e irriverente.
Tutto è governato da un fatalismo esasperato in cui le intenzioni spesso rimangono tali e non si completano nelle azioni corrispondenti, in una sorta di parallelismo con un caos beffardo a cui Bledi non riesce, non può o non vuole opporsi.
Sembra proprio il fato a mettere sulla strada di Bledi, cronista di nera in “lutto alcolico” per una delusione amorosa, una zingara diciottenne, Isabela, con cui vorrebbe avere un rapporto sessuale, ma che uccide “involontariamente” mentre si trova nella sua vasca da bagno.
È il punto di rottura, l’evento tragico che porta a galla le inquietudini del protagonista risvegliandolo dallo stato catatonico in cui si crogiolava tra un Jack Daniel’s e l’altro.
Risorgono come zombie dalla terra della sua “preistoria” i ricordi dell’infanzia in quella casa piccola come una scatola di fiammiferi, della gioventù passata a combattere contro il “coro di vermi” che lo assilla e diventa metafora delle ossessioni umane, dei vicini di casa “involontari” comprimari in una vita di cui lui stesso non si sente protagonista.