Francesco Altimari (1955) è professore ordinario di lingua e letteratura albanese all’Università della Calabria dal 1992. È stato docente della stessa disciplina anche nelle Università di Napoli “L’Orientale” (1991-92), Lecce (1993-97), Trieste (2000-01) e Milano-Cattolica (2004-22). Si occupa attualmente di filologia e linguistica albanese, in area balcanica e in area italiana, con interessi anche nell’ambito della balcanistica.
Responsabile scientifico dell’edizione dell’Opera Omnia di Girolamo De Rada (1814-1903), ha all’attivo diversi volumi monografici su tematiche di filologia, linguistica e letteratura albanese e arbëreshe e numerosi saggi di albanistica e di balcanistica apparsi su riviste specialistiche, italiane e straniere. Membro onorario dell’Accademia delle Scienze d’Albania, di cui oggi è membro esterno, dal 2006 e dell’Accademia delle Scienze e delle Arti del Cossovo dal 2008,è stato insignito della Laurea “Honoris Causa” dalle Università di Tirana (2007), del Sud-Est europeo di Tetova nella Macedonia del Nord (2013), Eqrem Cabej di Argirocastro (2016) e Aleksander Moisiu di Durazzo (2017).
Presidente della Fondazione Universitaria Francesco Solano istituita nel 2009 dall’Università della Calabria per promuovere la lingua e la cultura albanese in Italia, favorire gli interscambi culturali tra le comunità albanesi storiche di area italiana e quelle di area balcanica (Albania, Cossovo, Macedonia, Grecia e Montenegro) e assicurare un supporto alle attività di cooperazione scientifica e didattica dell’UNICAL nei Balcani.
Professore, dove e come si forma?
Non è facile raccontarlo in poche parole: tenterò di farlo senza abusare troppo della sua pazienza e di quella dei vostri lettori. Sono arbëresh, originario della comunità di San Demetrio Corone ed è in questa comunità che nasce il mio interesse verso l’albanologia, per merito di un sacerdote, una persona speciale: papas Giuseppe Faraco. Era un prete della nostra chiesa arbëreshe, cattolica di rito bizantino, certamente ortodosso nella dottrina, ma “eretico” – per amore della verità! – nei suoi comportamenti, che aveva fatto sua quella saggia tradizione anticonformista di “ribellione” che ha caratterizzato molti intellettuali nel corso della nostra lunga storia. Era docente di religione, ma dedicava una parte del suo insegnamento alla lingua albanese – all’epoca non permessa dagli ordinamenti didattici! – oltre a essere un grande promotore di iniziative culturali che inaugurarono i primi contatti del mondo arbëresh col mondo albanese.

Erano gli anni successivi al 1968 e papas Faraco era perfettamente in linea con l’orientamento progressista dell’epoca. Aveva fondato un circolo culturale al quale aveva dato il nome di Zjarri, Il Fuoco e con esso creò anche un gruppo folcloristico. Attivò anche la rivista che portava lo stesso nome del circolo, oggi non molto ricordata, ma che raggiunse un alto livello di specializzazione e dove eccezionalmente collaboravano negli anni ’70 e ’80 figure prestigiose della scienza e della intellighenzia albanese della madrepatria, allora sotto il regime comunista, e della diaspora che erano anche punto di riferimento della dissidenza albanese in Europa. Nel panorama delle riviste albanesi del secondo dopoguerra non ce n’è una simile a Zjarri in quanto era proibito agli studiosi albanesi sotto il regime di Enver Hoxha di collaborare con giornali che ospitavano i “nemici del popolo”, come veniva considerato Martin Camaj, una figura eccelsa di albanologo e di intellettuale che sentivamo molto vicina e nostro importante punto di riferimento.

Per lui già allievo della Scuola saveriana di Scutari che era dovuto fuggire dall’Albania comunista, a cui la sua patria divenne off limits¸ l’Arbëria fu la sua seconda patria ideale. Ad essa lui dedicò molte delle sue pregevoli monografie, occupandosi di alcune nostre parlate arbëreshe (Greci, Barile, Falconara Albanese, S.Costantino Albanese) che riteneva tra le più conservative e interessanti, ma per lui – Camaj è considerato tra i maggiori scrittori albanesi contemporanei – fonte di ispirazione della sua opera letteraria. Formatosi prima a La Sapienza di Roma, presso la cattedra di Ernest Koliqi, e poi in Germania, dove gli venne poi affidata la cattedra di albanologia dell’Università di Monaco di Baviera, Camaj ha tenuto costanti rapporti, per oltre un trentennio, sino alla sua prematura scomparsa (1992) col mondo degli albanesi d’Italia. A favorire il contatto con Martin Camaj, è stato un altro grande arbëresh, il prof. Francesco Solano, anch’egli un papàs molto speciale, albanologo e scrittore, una figura centrale della mia formazione accademica.
Studioso versatile e poliglotta, vissuto per molti anni in Argentina -a Buenos Aires aveva pubblicato nel 1946 la raccolta di poesie Burbuqe t’egra (Boccioli selvatici) con cui riprende a fiorire la letteratura arbëreshe nel secondo dopoguerra – dalla seconda metà degli anni ‘50 Solano ritorna nella sua comunità di origine, a Frascineto, mettendo la sua riconosciuta competenza albanologica al servizio dell’Arbëria e della Eparchia di Lungro (determinante è stato il suo apporto nella traduzione della liturgia in lingua albanese promossa con lungimiranza dal vescovo mons. Giovanni Stamati, che nel 1968 decretò l’albanese lingua liturgica nelle comunità arbëreshe dell’Eparchia, in Calabria e Basilicata).

Pubblica nel 1972 il suo Manuale di lingua albanese, che è stato per gran parte degli arbëreshë – ma anche per molti italiani – lo strumento primario di apprendimento della lingua albanese moderna.Gli stretti rapporti tra papas Solano e papas Faraco favorirono nel corso degli anni ‘70 una proficua collaborazione che riguardò, come si diceva, la rivista Zjarri e che coinvolse anche le relazioni culturali tra mondo albanese e mondo arbëresh. Un momento di svolta è rappresentato dalla 1 settimana della cultura albanese (1977)¸ che registrò la presenza del celebre linguista Eqrem Çabej – un felice ritorno tra gli arbëreshë! – in questa manifestazione, a cui partecipò anche il prof. Jorgo Bulo.
Non va dimenticato che tutto questo accadeva in un’epoca molto particolare, in un’Europa caratterizzata dagli scontri ideologici e dalle divisioni politiche radicali tra i due blocchi: quello occidentale liberale e quello orientale comunista. Anche gli studi albanesi restavano impigliati in questa rete di contrapposizioni, con le istituzioni accademiche albanesi sotto il diretto controllo del regime stalinista di Hoxha e le cattedre di albanese in Italia tenute da autorevolissimi studiosi e noti intellettuali albanesi, per lo più di orientamento cattolico o liberale, e comunque anticomunista, a cui, grazie all’azione del prof. Ernest Koliqi, va dato il merito di avere garantito il risveglio della cultura arbëreshe, anche attraverso la rivista Shejzat (Le Pleiadi) di Roma.
Era una impresa quasi impossibile, in questo quadro politico e culturale così divisivo fatto di forti contrapposizioni ideologiche, aprire varchi di dialogo e di confronto nell’ambito degli studi albanesi prodotti nelle due Europe create dalla “guerra fredda”. Ma fu grazie anche al coraggio e alla visione aperturista di questi due papades che ho citato che si aprirono delle brecce importanti.

Nel 1975 il prof. Solano divenne titolare della cattedra albanologica istituita presso la nuova Università della Calabria: ed è proprio da questa nuova cattedra che partirono segnali importanti di collaborazione che determinarono delle novità nelle relazioni italo-albanesi. All’epoca, dopo la scomparsa del prof. Koliqi e il trasferimento dall’Orientale di Napoli a La Sapienza del prof. Ressuli, la situazione delle cattedre di albanese in Italia era divenuta piuttosto precaria, registrandosi nel panorama nazionale la sola presenza di un solo professore ordinario, il prof. Antonino Guzzetta, dell’Università di Palermo.

A lui, mio secondo Maestro, si deve il merito di aver rilanciato gli studi albanologici, favorendo l’accesso ad essi di molti giovani, grazie ai congressi internazionali di albanologia, già avviati da papas Gaetano Petrotta e proseguiti dal prof. Giuseppe Valentini, tradizione che ora veniva rinsaldata dai proficui rapporti di amicizia personale e di stretta collaborazione accademica che lui intratteneva con il prof. Francesco Solano e con il prof. Martin Camaj.
Ebbi allora la fortuna come studente iscritto ai corsi di Lettere indirizzo classico della nuova Università della Calabria (1973) di trovarmi a frequentare i corsi universitari di albanese con il prof.Solano, che avevo già conosciuto e avuto come guida nei corsi avviati negli anni del Liceo a San Demetrio da papas Faraco e anche di avere i primi contatti con queste figure di albanologi insigni che hanno segnato anche la mia formazione. E al termine del primo corso tenuto dal prof. Solano, assieme ad altri studenti arbëreshë, miei compagni di corso, ebbi la fortuna di partecipare nell’agosto del 1976 al seminario internazionale di lingua e cultura albanese organizzato dall’Università di Prishtina. Godendo di un momento particolare di prima apertura politica determinato dalla nuova Costituzione del 1974, il Kosovo veniva riconosciuto come la Vojvodina regione a statuto speciale, con la possibilità di organizzare, come era per le altre repubbliche della Jugoslavia titoista, i seminari estivi riservati a studiosi e studenti stranieri che volevano approcciarsi alle lingue e alle culture dei rispettivi territori della Federazione jugoslava.
Per noi, studenti dell’Unical, dal punto di vista linguistico e culturale, fu un’esperienza davvero straordinaria, che ci aprì le porte di quel mondo preclusoci dalla “cortina di ferro”, permettendoci anche di entrare in contatto, grazie agli incontri e ai primi contatti con i colleghi e i docenti dell’Università di Prishtina e con una rete di studiosi provenienti dai maggiori centri europei ed extra-europei di studi albanologici. Il felice esito di quell’esperienza rese possibile anche l’apertura agli arbëreshe dell’Albania enverista, ancora rigidamente blindata.
Papas Solano chiese l’intervento di due autorevoli studiosi e amici dell’Accademia albanese, dei proff. Aleks Buda e Eqrem Çabej, affinché anche l’Albania attivasse seminari simili a quelli kossovari nelle proprie strutture universitarie. L’appello, che “toccava” le corde della sensibilità patriottica delle classi dirigenti del paese, vista l’acerrima rivalità esistente tra l’Albania di Enver Hoxha e la Jugoslavia di Tito, ebbe una pronta risposta. Sicché, l’anno successivo, dopo i seminari estivi di Prishtina, potemmo seguire in Albania corsi intensivi di lingua e seminari speciali – di linguistica, letteratura, etnografia, ecc.–tenuti dai migliori specialisti dell’Accademia delle Scienze e dell’Università di Tirana e riservati a noi studenti della cattedra di albanologia dell’Unical.
Questo “miracolo a Tirana”, perché di un vero e proprio miracolo si trattò, se consideriamo la rigida clausura ideologica che aveva di fatto isolata l’Albania nelle relazioni con il mondo esterno, si deve a questa svolta storica determinata dalla presenza della nostra nuova cattedra di albanese dell’Università della Calabria. I rapporti che poi si aprirono col mondo arbëresh fanno parte di questa strategia. E ciò grazie all’impegno del mio mentore che fu decisivo anche nella mia scelta di avviare il mio percorso di studi in ambito albanologico. E mi laureai, avendo come relatore proprio il prof. Solano, con una tesi in lingua e letteratura albanese: “L’epoca e la figura di Scanderbeg nell’opera di De Rada e nella letteratura arbëreshe”.
In che anno si è laureato?
Il 31 marzo del 1978.
È entrato subito nell’ambiente universitario?
Subito dopo la laurea ho prestato servizio militare, poi nel 1980 mi è stata offerta una possibilità, in quanto i corsi della cattedra del prof. Solano erano molto seguiti – il professore oltre al corso di letteratura teneva anche quello di Dialetti albanesi dell’Italia meridionale – ma non erano supportati da alcun tipo di collaborazione didattica. Per questo la Facoltà bandì un concorso per un contratto di lettore di lingua che vinsi e iniziò così la mia avventura accademica.
Quindi, insegna all’Università dal 1980?
Sì. Ho lavorato come lettore per cinque anni; poi, ho avuto nel 1986 dal DAAD – Ente di ricerca tedesco per gli scambi accademici – una borsa di studio in Germania avendo come referenti accademici alla Università “Ludwig Maximilian” di Monaco di Baviera il prof. Martin Camaj, che mi ha guidato nella ricerca sugli studi condotti in area tedesca sulla lingua, la letteratura e la cultura arbëreshe, e all’Università di Mannheim il prof. Rupprecht Rohr, che mi ha indirizzato sui risultati della ricerca condotta dalla sua scuola di romanistica sul lessico arbëresh. Tornato in Calabria, sono stato inquadrato nel 1987 come ricercatore universitario di ruolo, e subito dopo ho partecipato al concorso per professore associato e risultato vincitore, sono stato chiamato a ricoprire il posto dalla mia Università di provenienza.
Nel 1990 c’è stato un altro bando per professori ordinari, questa volta bandito dall’Orientale di Napoli e qui sono diventato professore di prima fascia. Continuavo a tenere i corsi anche presso la nostra Università, perché nel frattempo il prof. Solano era andato in pensione. La nostra cattedra è stata mantenuta in vita negli anni precedenti grazie alle supplenze tenute per un anno dal prof. Trumper e poi nel biennio successivo dal prof. Guzzetta, che veniva appositamente da Palermo per garantire l’insegnamento ai nostri studenti. Nel 1992 sono rientrato presso la nostra Università, in Calabria, dove per 25 anni mi ha affiancato nella mia azione didattica e scientifica con la sua preziosa collaborazione il prof. Anton Berisha, che ho chiamato dal Cossovo, allora sotto la morsa genocida del regime di Milosevic che aveva chiuso tutte le scuole, le Università e gli istituti di ricerca albanesi.
Oggi, di cos’altro si occupa oltre l’insegnamento?
I nostri maestri, in particolare il prof. Solano e il prof. Guzzetta – e qui devo allargare il campo includendo nel discorso anche il carissimo collega e amico Matteo Mandalà, che ho preceduto nel percorso accademico solo di qualche anno – ci dissero sin da subito che chi si fosse occupato di albanologia, avrebbe avuto non una, ma due missioni da compiere, assolvendo oltre agli incarichi di docenza e di ricerca connaturati all’ambito accademico, anche quella che oggi viene chiamata la “terza” missione dell’Università, ma che per noi era da ritenere la prima, per essere le cattedre di Cosenza e di Palermo quelle a più diretto contatto con il mondo arbëresh.

Le radici di tale particolare visione dell’albanologia ci portano lontano nel tempo, alla fine dell’Ottocento, quando grazie all’impegno di una vita spesa per la causa albanese dal nostro vate Girolamo De Rada, venne istituita presso l’Orientale di Napoli, nel 1900. Ci fu un incontro determinante, per la sua attivazione, del Poeta. con il Ministro dell’Istruzione dell’epoca durante un convegno di orientalistica tenutosi a Roma nel 1897. Fu questa di Napoli la prima cattedra universitaria di albanologia ad essere accesa in Europa. La seconda venne attivata nel 1921 a Belgrado (e in questi giorni, anche se con un anno di ritardo, i colleghi belgradesi stanno celebrando degnamente questo importante centenario).

Ho voluto accennare brevemente alla storia delle cattedre per ricordare che la nostra missione di docenti e ricercatori al servizio alla comunità storica arbëreshe rientra naturalmente e pienamente nel ruolo che siam chiamati a svolgere come punto di riferimento culturale e scientifico delle nostre comunità. Ecco perché una delle prime cure del mio Maestro, il prof. Solano, è stato quello di recuperare quei fondi appartenenti alla nostra memoria, tra cui archivi con documentazione di testi manoscritti di scrittori italo-albanesi, che per l’assenza in Calabria fino al 1972 di centri universitari, erano stati portati fuori regione.
Tra questi materiali ricordo i pregevoli manoscritti di intellettuali arbëreshë di Calabria e Sicilia del XVIII, XIX e XX secolo portati dal glottologo Giuseppe Gangale alla Biblioteca Reale di Copenaghen. Grazie all’intervento del fondatore della nostra cattedra, e alla pronta disponibilità dell’Ateneo, siamo riusciti a recuperare in microfilm tutto questo patrimonio finito all’estero e abbiamo invogliato chi era in possesso di altri fondi speciali, a donarli al nostro ateneo. Allo stato attuale sono ben sei i fondi speciali albanologici presso la Biblioteca di Area Umanistica dell’Ateneo.

Tra i tanti materiali recuperati, oltre a libri e manoscritti rari, ci sono anche centinaia di registrazioni importanti sulle parlate arbëreshe, alcune delle quali oggi purtroppo estinte, che sono state digitalizzate e catalogate grazie ad un progetto realizzato da un nostro valido ricercatore che oggi non è più con noi, il compianto prof . Giovanni Belluscio. Questa azione di recupero, proseguita con altri fondi privati ci ha permesso di disporre di opere importanti che rappresentano gran parte della memoria della comunità italo- albanese e che rendono il nostro laboratorio uno dei maggiori centri di documentazione albanistica attivato in una Università italiana.
Altra iniziativa importante perseguita in questi anni, in collaborazione con il Comune di San Demetrio Corone, è stata la pubblicazione dell’Opera Omnia, in 12 volumi, di Girolamo De Rada, progetto a cui hanno collaborato docenti e collaboratori della nostra cattedra (prof. Anton Berisha, prof. Fiorella De Rosa, prof. Vincenzo Belmonte, dr. Adriana Ponte) e altri colleghi di altre Università, italiane (prof. Matteo Mandalà, prof. Leonardo Savoia) e straniere (prof. Michelangelo La Luna).

Grazie ad un accordo di cooperazione stipulato dalla Fondazione Universitaria F.Solano dell’UNICAL con l’allora Ministra della Cultura della Repubblica d’Albania, Mirela Kumbaro, coinvolgendo anche la Repubblica del Kossovo in occasione del bicentenario della nascita del Poeta (2014), è stato possibile realizzare l’edizione in lingua albanese, in sei volumi, dell’Opera Omnia deradiana, portata in porto grazie all’impegno del prof. Gëzim Gurga, dell’Università di Palermo.
Nell’ultimo ventennio, numerosi sono stati i progetti lessicografici e letterari che hanno riguardato le comunità arbëreshe di diverse province del nostro Meridione (Campobasso, Avellino, Potenza, Catanzaro, Crotone, Cosenza) e che sono stati realizzati dal nostro Laboratorio di Albanologia con la collaborazione di tanti nostri bravi laureati, ricercatori e collaboratori, grazie ad accordi con gli Enti locali, in applicazione della legge 482/1999. Ricordo qui il prof. Vincenzo Belmonte, la dr. Maria Luisa Pignoli, il prof. Pasquale Scutari, il dr. Nicola Bavasso, la dr.Emilia Conforti, la dr. Giovanna Nanci, la dr. Maddalena Scutari, il dr. Giuseppe Baffa, ecc.

Quando c’è stato nel passato il supporto degli Enti locali, i risultati che siamo riusciti a produrre non sono stati irrilevanti. Pur disponendo di poche forze, questo duro e impegnativo lavoro è stato portato avanti grazie all’aiuto fornito dai nostri bravi collaboratori, laureati e studenti, che hanno lasciato la loro significativa “pietra” nella costruzione di questa casa comune, che oggi grazie alle opere pubblicate, e alle centinaia di tesi di laurea e di dottorato realizzate, offre un giacimento linguistico e culturale di straordinario interesse, sia didattico che scientifico, che può essere liberamente fruito.
Peccato poi che per l’assenza di quella svolta a livello istituzionale che purtroppo non c’è stata con la 482/99 da parte della politica italiana, ma anche da parte della politica albanese, che si è limitata ad istituire recentemente un Centro Studi e Pubblicazioni sugli Arbëreshë, QeSPA che brilla per il modo come sperpera senza alcun vantaggio per la comunità arbëreshe i cospicui soldi pubblici assegnati, non si è stati in grado di fornire alle nostre comunità quegli strumenti di tutela che sono gli Istituti pedagogici e culturali che altre minoranze più fortunate perché politicamente “protette” nelle regioni di confine hanno garantiti da tempo, offrendo importanti opportunità di lavoro e punti di riferimento ai territori di riferimento.
Ciò non ci permette di mettere a frutto il lavoro che le nostre cattedre hanno sin qui realizzato qualcuna in decenni e qualcun’altra anche in un secolo di fatiche! E peccato per i nostri bravi giovani che abbiamo formato in tutti questi anni, raggiungendo elevate competenze scientifiche e professionali, che hanno dovuto purtroppo prendere la via dell’emigrazione alla ricerca di un posto di lavoro, all’estero o nelle regioni del nord d’Italia, lasciando le nostre comunità oggi sempre più desertificate e private di tante risorse intellettuali giovani e preparate!
Per fortuna registriamo ora un importante segnale di cambiamento con la decisione presa ultimamente nel 2021 dall’Accademia delle Scienze d’Albania di istituire una apposita Unità di ricerca sugli arbëreshë, gli arbëneshë e gli arvaniti: per la prima volta si dà una risposta seria e concreta ai bisogni reali della nostra comunità – non solo di quella scientifica – avendo la responsabilità come cattedre italiane di albanologia di offrire alla nostra minoranza strumenti aggiornati e avanzati di conoscenza – in campo linguistico, letterario e culturale – con cui affrontare le difficili sfide che vengono ad essa da una situazione di grave crisi che non può essere affidata ad improvvisati e sedicenti cultori animati solo da buone intenzioni “patriottiche”!

Tra le iniziative che abbiamo in programma, sostenute dalla stessa Accademia albanese, ricordo il dizionario digitale Arbëresh, sulla base di una banca dati informatica sul patrimonio lessicale italo-albanese avviata a partire dagli anni ’90 e riguardante sia la lessicografia letteraria, attraverso la elaborazione informatizzata delle edizioni critiche delle antiche opere letterarie italo-albanesi (sec.XVI-XIX), sia la lessicografia dialettale, attraverso la implementazione dei dati lessicali acquisiti sul campo nelle comunità albanofone del Mezzogiorno d’Italia dai Laboratori di Albanologia dell’Università della Calabria e di Palermo nell’ultimo quarantennio, ma anche il progetto dell’Opera Omnia di Francesco Antonio Santori e, last but not least, la candidatura della cultura immateriale arbëreshe simboleggiata dai riti del Moti i Madh quale patrimonio universale dell’UNESCO (2020). Assieme alle cattedre universitarie dell’Università della Calabria e di Palermo, sono coinvolte in queste iniziative anche altre cattedre italiane di albanologia: quella del Salento di Lecce, “Ca’ Foscari “ di Venezia, L’Orientale di Napoli.

Due parole sulle condizioni attuali della realtà arbëreshe.
Partirei proprio da quest’ultima iniziativa che ha preso slancio nel periodo critico della pandemia, mettendo a frutto con questo ambizioso piano progettuale quel lungo, costante e accurato lavoro di indagine sul campo che le nostre cattedre gemelle – così mi piace definire per l’efficace partenariato creatosi attraverso decenni di stretta cooperazione tra la nostra Università della Calabria e quella di Palermo, diretta dal prof. Mandalà – portano avanti da decenni, a cui si sono poi aggregate le nuove cattedre del Salento, retta dalla prof. Genesin, e di Ca’ Foscari, diretta dalla prof. Turano, e ultimamente quella di Napoli L’Orientale, sotto la direzione della prof. Suta. Non manca il sostegno delle discipline antropologiche ed etnomusicologiche con il coinvolgimento del prof. Eugenio Imbriani e del prof. Nicola Scaldaferri.
Siamo partiti da questo progetto, che oggi è approdata presso il nostro Ministero della Cultura, con il coinvolgimento anche del corrispondente Ministero albanese per tentare di arrivare anche ad una ipotesi di collaborazione inter- e transnazionale, seguendo il suo iter ordinario per il riconoscimento UNESCO del nostro patrimonio culturale immateriale. Abbiamo deciso di partire da un progetto inclusivo, che “legasse” tutte le comunità attraverso la valorizzazione dei loro riti più significativi del ciclo della primavera per tentare di aggregare attraverso un percorso collaborativo l’intera Arbëria, per superare così con un progetto scientificamente valido e anche culturalmente unificante la situazione di stallo che si registrava da tempo e che non aiutava la nostra minoranza a ritrovarsi unita in obiettivi condivisi.

Con queste basi si potrebbe anche facilitare il raggiungimento di una auspicabile coordinamento interregionale da raggiungere a livello politico, in forma federativa, tra tutti i Comuni di minoranza albanese, analogo a quello così egregiamente realizzato a livello scientifico. Pensiamo, infatti, che l’assenza sia nei rapporti con le istituzioni dello Stato italiano che con quelle dello Stato albanese di un soggetto istituzionale rappresentativo delle nostre 50 amministrazioni comunali, non ci rende un buon servizio a livello nazionale nelle trattative necessarie per attuare finalmente quella tutela che è sinora mancata per la non applicazione della stessa legge 482/1999, ma che ci indebolisce anche a livello internazionale, non permettendoci di interagire con una rappresentanza unitaria di minoranza con gli Stati dell’albanofonia balcanica (Albania, Cossovo, Macedonia del Nord).
L’Arbëria ha oggi bisogno di un grande progetto strategico, di ampio respiro culturale sostenuto da un forte soggetto istituzionale, rappresentativo e unitario di tutte le comunità italo-albanesi, di cui è tempo che si facciano carico i Comuni arbëreshë riconosciuti come minoritari e diffusi nella Penisola., con il sostegno e gli indirizzi di una cabina di regia scientifica espressa di concerto tra le istituzioni operanti nelle aree albanofone, d’Italia e dei Balcani, e facendo tesoro – per non far iniziare la nostra storia sempre “ab ovo”! – delle positive esperienze – didattiche, culturali, museali, musicali, artigianali ecc. – prodotte e maturate all’interno della nostra realtà minoritaria che vanno adeguatamente valorizzate e incanalate in un piano organico di quello che abbiamo definito un grande “Parco Culturale” aggregante esteso a tutta l’Arbëria.
Il progetto, tramite il quale vogliamo candidare la nostra cultura a patrimonio universale, ha quindi anche uno scopo “pedagogico” a invogliare le comunità a ritrovare punti di incontro e di contatto fattivi nella concreta valorizzazione dei tanti tasselli che compongono questo mosaico con le sue specificità religiose, ma anche etnografiche, musicali, artigianali, ecc. che devono amalgamarsi concentrando così gli sforzi per ritrovare quell’unità vera che esalti i valori autentici in cui si esprime la cultura arbëreshe oggi.
Paghiamo, a causa di questi inspiegabili 20 anni di ritardi dalla promulgazione della legge 482, la sua non applicazione, dovuta sostanzialmente al fatto che si aspettava che l’attuazione di questa legge cadesse dall’alto, o che qualcun altro provvedesse a farlo, mentre, era compito precipuo delle amministrazioni locali prendere coscienza che con questo provvedimento la nostra comunità aveva fatto un passo in avanti straordinario, di pieno riconoscimento della sua soggettività giuridica come minoranza linguistica storica e che spettava ai suoi rappresentanti istituzionali, in primis ai sindaci, richiedere passo passo la sua puntuale esecuzione: in ambito comunale, in ambito scolastico, nel servizio pubblico radio-televisivo.
È ora perciò di far partire questo grande “cantiere” Arbëria in cui far confluire i “cantieri” di ogni nostra
singola comunità albanofona coinvolta, mettendo assieme le risorse umane che abbiamo professionalmente
formato in questi decenni, con cui cominciare a far emergere questo giacimento linguistico, artistico e
culturale ancora in gran parte interrato, ma che per dare i suoi frutti necessita di essere studiato, sistemato e
catalogato per poi essere messo a disposizione disponendo di una “casa della memoria” da ubicare in ogni
comunità arbëreshe e da mettere in rete, per poter essere così usufruito da tutti.

Per poi cominciare ad istituire strutture museali e di ricerca che a livello pedagogico, linguistico, culturale, artigianale, musicale, ecc. offrano nei territori, di concerto con le Università, punti di riferimento su quanto sinora già realizzato nelle singole realtà e su quanto si intenderà sviluppare in futuro finalmente come comunità unitaria Arbëria.
Nel frattempo, le nostre cattedre non sono state certo con le mani in mano, ma continuando a svolgere un ruolo a loro anche estraneo per cercare di supplire in qualche modo alla mancanza di quelle strutture specialistiche di istituzione regionale altrove già appannaggio delle minoranze linguistiche appoggiate politicamente che, contrariamente alle nostre, sono seriamente tutelate (vedi l’esperienza dei ladini!), hanno formato ottimi laureati e dottori di ricerca e riuscendo ad accantonare, grazie al loro apporto, materiali linguistici, letterari, storici, culturali – preziosi raccolti direttamente sul campo che arricchiscono i nostri laboratori di ricerca. Non solo, ma nonostante la debolezza di essere parte di un micro settore scientifico disciplinare, siamo riusciti a sopravvivere accademicamente, avendo la nostra cattedra grazie alla fruttuosa collaborazione attivata con la gemella partner dell’Università di Palermo, coinvolgendo alcune qualificate Università d’Albania e del Cossovo e diversi Atenei italiani, dei dottorati di ricerca specifici internazionali in albanologia, anche con doppio titolo accademico, e se oggi una parte delle antiche e nuove cattedre istituite in Italia sono coperte, lo si deve anche a questa capacità di sopravvivenza.


E questo per spiegare cosa abbiamo fatto ad un improvvisato ricercatore albanese, Edmond Cane, che benché del tutto ignaro non solo di arbërisht ma della problematica complessiva – linguistica, culturale, storica e giuridica – della nostra minoranza, è stato incaricato con questi “titoli” di occuparsi dell’arbërishtja e degli arbëreshë con i lauti fondi pubblici dispensati dalla QeSPA (Qendra e Studimeve dhe Publikimeve për Arbëreshët), del già Ministero della Diaspora e ora del Ministero degli Affari esteri d’Albania, tra l’altro recentemente promotrice a Tirana nel nome dell’arbërishtja addirittura di una conferenza mondiale sulla morte delle lingue minoritarie!
Corroborato dal soggiorno di alcune settimane di ameno turismo etnico in terra d’Arbëria, per lui evidentemente titolo sufficiente per autopromuoversi esperto di arbërishtja e di questioni arbëreshe, questo inviato speciale attraverso un noto blog albanese si mette ora a disinformare l’opinione pubblica arrivando a sostenere che la comunità arbëreshe in Italia soffra di “insufficienza accademica, mancanza di ricerche e di saperi scientifici” (sic!).
Invece di riversare improvvidamente sulla rete le sue saccenti…. non conoscenze, quasi a giustificazione dell’esistenza in vita del Centro che sponsorizza le sue scorribande in Arbëria, a sua volta generosamente finanziato su fondi del bilancio statale albanese, farebbe bene questo aspirante arbëreshologo, che evidentemente non è un assiduo frequentatore di biblioteche e archivi, a consultare quanto è stato prodotto sull’argomento non solo dalla nostra Università,(http://www.albanologia.unical.it/edizioni.htm) che in questi giorni festeggia i suoi primi 50 anni di vita, ma da tutte le cattedre albanologiche presenti nelle Università d’Italia, alcune operanti anche da oltre un secolo.
Parliamo della lingua albanese. Dalle sue origini a che fine farà.
Intanto, una lingua come l’albanese, che è sempre stata da millenni espressione di una comunità linguistica non numerosa, vissuta all’interno di contesti territoriali particolarmente complessi non solo dal punto di vista geografico, ma anche per ciò che riguarda i rapporti interlinguistici, interculturali e interetnici all’interno dei Balcani, è già un miracolo! E la spiegazione del miracolo può risiedere nella straordinaria resilienza che l’albanese ha mostrato nel corso dei millenni, prima a contatto con le lingue maggioritarie delle popolazioni confinanti con cui è stato in contatto, poi con le potenti lingue di prestigio che si sono avvicendate nell’area, il greco e il latino e poi in posizione di adstrati e superstrati le varietà slave e il turco ottomano.
Nonostante questo stretto contatto, il risultato è stato che la pressione delle diverse popolazioni non albanofone non ha portato all’assimilazione di quelle paleo-albanesi, di presunta origine illirica o traco-illirica, riuscendo la loro lingua a mantenere i tratti linguistici originali ereditati dall’antico indoeuropeo nella sua struttura grammaticale, ma subendo una forte influenza nella sua struttura lessicale da parte di quei popoli che si sono avvicendati nel corso dei secoli nelle aree di insediamento degli albanesi. Ma questo più che sintomo di debolezza deve essere interpretato come sintomo di forza di una lingua!
Qualcosa di simile è capitato nel corso della sua lunga storia all’inglese. Ecco perché il lessico dell’albanese che si mostra così stratificato ci permette anche di ricostruire diacronicamente millenni di storia linguistica europea e attraverso questi diversi strati di lessico presenti nell’albanese riusciamo anche a ricostruire fasi diacroniche diverse all’interno delle stesse lingue, sia di quelle estinte che di quelle tutt’ora vive dei Balcani, con cui l’albanese è stato in contatto e ad avere una migliore conoscenza dei fenomeni interlinguistici che caratterizzano storicamente l’area dei Balcani, e in particolare i legami antichi che registriamo tra albanese e romeno. Essi, com’è noto, non riguardano solo i latinismi, oggetto di particolare attenzione da parte dei balcanisti oltre che dei romanisti, ma anche le antiche madrelingue da cui queste due lingue balcaniche, cioè l’albanese e il romeno, derivano.
Oggi dobbiamo preoccuparci soprattutto dell’impatto che la globalizzazione ha in quest’area particolare d’Europa sulle lingue e naturalmente l’impatto è maggiore sulle lingue che per il numero dei suoi parlanti consideriamo relativamente “minori”. Ma esso si rapporta anche al “prestigio” e alla posizione dell’albanese nei Balcani che è da considerare oggi decisamente su un piano di maggiore “peso” politico e demografico rispetto al passato. Siamo passati così nell’arco di appena un secolo dalla faticosa ma riuscita scelta di un codice alfabetico unificato a base latina come sistema che accomuna le diverse comunità anche di diversa appartenenza religiosa nelle diverse aree albanofone, ad un codice linguistico unitario condiviso – l’albanese moderno – che è oggi lingua ufficiale in ben tre Stati dei Balcani: nella Repubblica d’Albania, nella Repubblica del Kossovo e nella Repubblica della Macedonia del nord.
Questo riconoscimento è sicuramente un punto di forza per l’albanese, il cui status sociolinguistico esce oggi rafforzato in area balcanica anche per la presenza di minoranze albanofone che sono riconosciute in alcuni dei Paesi confinanti, come la Serbia e il Montenegro. Analogo discorso non si pone però per quelle arvanite, per le quali lo Stato greco continua a non riconoscere lo status di minoranza linguistica, ma qui il discorso si estende e riguarda anche altre minoranze come quelle valacche o arumene. Il vero problema è oggi come resistere alla pressione assimilatrice che le lingue della globalizzazione, in primis l’inglese, esercitano in questo contesto globalizzato.
Certamente a questa nuova sfida è necessario rispondere con una strategia nuova di politica linguistica, auspicabilmente coordinata tra le istituzioni accademiche e universitarie, che in vista dell’auspicabile prossimo ingresso nella Unione Europea di ben tre Stati con lingua ufficiale l’ albanese, coordini meglio gli sforzi e adatti la lingua oggi patrimonio comune di una comunità linguistica relativamente più rafforzata, parlata da oltre 8 milioni di parlanti, alla luce delle nuove future esigenze, anche da quelle esatte dalle dinamiche migratorie che hanno portato nell’ultimo trentennio alcuni milioni di albanofoni a ricollocarsi per motivi di lavoro nel contesto europeo occidentale. Ovviamente per potenziare le possibilità espressive di questa lingua sempre più “esigente” e globalizzata non vanno sottovalutati gli sforzi per arricchirla ulteriormente attingendo al patrimonio storico espresso dalle diverse sue varietà linguistiche, senza escludere anche quelle della diaspora storica, come quella arbëreshe.
Naturalmente sono molto più in apprensione per la situazione delle nostre parlate, perché non abbiamo ancora acquisito quegli strumenti che pure la legge di tutela che risale al 1999 in realtà prevedeva. Le nostre comunità purtroppo si stanno desertificando per via della emigrazione che porta i giovani a trovare occasioni di lavoro nelle aree urbanizzate del Centro-Nord, ma anche dello stesso Mezzogiorno, se non all’estero. E il quadro è peggiorato oltre che dai preoccupanti cali demografici, che stanno svuotando le comunità dell’Arbëria, dal disinteresse esistente in ambito istituzionale, con un sistema scolastico che continua ad essere latitante nell’insegnamento della nostra lingua minoritaria, ma c’è da dire che manca una seria pressione da parte dei nostri amministratori locali per far applicare la tutela della nostra lingua, pure prevista dalla legge 482 da oltre vent’anni, senza che nessuno sia chiamato alle sue responsabilità politiche e amministrative per la sua mancata applicazione.

Qualcuno sostiene che tra un po’ di anni le vostre parlate non esisteranno più…
Può anche darsi che abbia ragione, ma non sarei personalmente così pessimista. Penso anzi che tale destino non sia irreversibile. Tutto dipende da come intende reagire la comunità linguistica arbëreshe. Anche qualche scrittore arbëresh a fine Ottocento aveva le stesse certezze e nel licenziare le sue poesie, si chiedeva se a distanza di un secolo, ci fosse stato ancora qualcuno in grado di leggere e comprendere i suoi versi! La verità è che le lingue minoritarie, pur in un contesto difficile come quello della società globalizzata in cui viviamo, non sono destinate naturalmente a scomparire.
Anche le nuove tecnologie possono oggi rappresentare, per le lingue delle minoranze diffuse come la nostra, una insperata ancora di salvezza, sia attraverso l’utilizzo di nuovi efficaci strumenti di comunicazione che creano al di là delle distanze geografiche anche relazioni linguistiche più intense e immediate, ma anche nella offerta di nuove e appropriate metodologie didattiche, che come abbiamo sperimentato nell’attività della nostra cattedra, ricorrendo all’e-learning creando “comunità” mettendo in contatto studenti albanofoni di aree linguistiche lontane, ma anche alla ludolinguistica che permette all’arbërishtja di utilizzare a fini didattici anche i bagagli di conoscenza linguistica e culturale delle generazioni più anziane per riversarli, utilizzando appropriate mediazioni didattiche, alle generazioni più giovani.
Pertanto, se la comunità viene adeguatamente informata e formata, attraverso una adeguata campagna di sensibilizzazione promossa sincronicamente dalle nostre istituzioni – comunali, scolastiche, religiose, culturali – aprendo i ristretti orizzonti della nostra antica matrice culturale identitaria circoscritta ai “katund” o alle “horë” al mondo globale, a partire da quello panarbëresh e panalbanese – ma non solo! – i nuovi interessanti canali di comunicazione che si offriranno ai cittadini arbëreshë, finalmente coscienti di avere dei diritti riconosciuti ma ancora oggi del tutto ignorati, offriranno loro nuovi stimolanti occasioni di ampliamento del loro bagaglio linguistico e culturale e ciò contribuirà a far crescere nelle rispettive comunità linguistiche di base la capacità di resistenza che assicurerebbe loro un futuro che oggi non si ritiene possibile.
Naturalmente, ognuno deve fare la sua parte. Come dicevo, le nostre cattedre si sono dovute occupare nel passato anche di ciò che altre istituzioni avrebbero dovuto fare e che non hanno fatto. Oggi è più che mai necessario mettere in azione tutti i meccanismi previsti dalle leggi – a livello europeo, a livello nazionale e a livello regionale – per creare un futuro che assicuri un domani ai nostri figli e nipoti e non restare passivi a rimpiangere impossibili e inutili passati nostalgici per la nostra Arbëria.
Se questo sciaguratamente non dovesse essere il nostro destino futuro, l’estinzione della nostra comunità linguistica diverrebbe inevitabile e ai posteri rimarrebbe la memoria della bella e straordinaria esperienza di una realtà minoritaria divenuta protagonista nella storia d’Italia e nella storia d’Albania.
L’amarezza di questo esito, è ovvio, non potrebbe essere giammai mitigata dalla consapevolezza di aver portato avanti, con tenacia e con le limitate forze a disposizione, la nostra missione: ma, piuttosto che illuderci – come molti improvvisati o organizzati avventurieri fanno – continuando in maniera farsesca con la folklorizzazione di una identità, perseverando a interpretare ruoli di assoluta subalternità e perpetuando l’ipocrisia di una perenne falsificazione –, il nostro impegno personale e istituzionale sarà posto come argine alla distruzione di ciò che di straordinario la nostra comunità ha realizzato, cioè quel miracolo in grado di rigenerare una storia e una cultura capace di far “risuscitare” nei secoli del lungo silenzio ottomano, attraverso i suoi brillanti intellettuali, un’identità velata, se non dimenticata, e di restituirla rigenerata alla sua antica comunità albanese di appartenenza, aiutandola così attivamente a riscoprire le sue radici nella comune appartenenza europea.

A questo obbiettivo mira la nuova struttura di ricerca per gli arbëreshë, gli arbëneshë e gli arvaniti, promossa su proposta mia e del collega Matteo Mandalà, a nome della Fondazione universitaria Francesco Solano e accolta con entusiasmo e lungimiranza dall’Accademia delle Scienze d’Albania. Questa struttura, alla quale hanno aderito studiosi insigni e collaboratori scientifici di alto profilo di diversi Paesi (Italia, Albania, Grecia, Germania), può diventare il laboratorio in cui sperimentare per gli arbëreshë e, perché no?, anche per gli arvaniti, nuove conoscenze e nuovi strumenti scientifici, tecnologicamente avanzati, con incisive ricadute anche didattiche, da offrire in immediata fruizione a giovani e anziani delle nostre comunità, aiutandoli concretamente nei loro sforzi di rinascita e di rigenerazione e non certo all’imbalsamazione della loro (e nostra) lingua. Di certo metteremo a tacere i “vajtim” che ultimamente sul suo capezzale hanno levato taluni «specialisti», più presunti che reali, che con mero spirito necrofilo pensano di aver così risolto il problema arbëresh.
E per chiudere questa conversazione nella nostra bella e antica lingua: Ngë kemi nge për lule dhe valtime, por për shurbise të mira për Arbërin tonë! Non è questo il tempo dei fiori o dei “vajtim”, ma pensiamo piuttosto a opere di bene per la nostra Arbëria!
