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Pasolini in Albania: dal vuoto alla moda

Una riflessione sul ritardo come pretesto per un quadro pasoliniano dell’Albania di oggi

Zoto Kanina Zoto Kanina
16 Maggio 2019
Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini

È diventato di moda ultimamente in Albania parlare di Pasolini, tradurre Pasolini. Per anni l’Albania delle lettere – spesso in effetti ferma al massimo a un Umberto Eco romanziere e saggista-politologo – è rimasta lontana da una figura così straordinaria della cultura italiana ed europea.

Addirittura ancora nel 2016 Giovanni Belluscio lamentava questo «deserto», questo «Pasolini inesistente per il mondo, la cultura e le lettere albanesi». Naturalmente come tutte le cose divulgate come fenomeni di moda il rischio è che sia l’aspetto più effimero e snob a imporsi.

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Ma c’è da dire comunque che, se una  moda porta a leggere Pasolini, seppure troppo in ritardo, è sempre meglio di quella che porta a leggere Fabio Volo (con tutto il rispetto per le sue vendite), tradotto da anni e letto da generazioni in Albania.

Per anni il vuoto

Mi sono chiesto più di una volta il perché di questa assenza, e spesso le risposte che trovavo erano legate a considerazioni sul livello della classe intellettuale e della cultura alta albanese. E per classe intellettuale non s’intende qualche illuminato docente di lettere, qualche indipendente professore di storia, o qualche poeta-scrittore amante dell’Italia, ma il mondo della cultura anche nelle altre forme più o meno divulgative: case editrici, televisioni, riviste accademiche e culturali.

Ma non era questo il fulcro del problema perché interrogarsi sul ritardo nell’interesse  per una figura simile – interesse ovviamente impensabile durante il regime, quindi mi riferisco al dopo ’90 – significa andare a indagare un perché che poco ha a che fare con l’importanza del personaggio in sé, ossia  con il fatto che Pasolini sia ritenuto forse il più grande intellettuale italiano degli ultimi 50 anni (e già questa sua “fama” avrebbe dovuto bastare per stimolare le traduzioni dei suoi scritti e l’«albanizzazione» del suo pensiero). La ricerca del perché deve indagare ciò che implica specchiarsi in un personaggio del genere e soprattutto con il suo pensiero in Albania.

Il pensiero pasoliniano risulta “incomprensibile” o addirittura “inaccettabile” per una classe culturale albanese che sarebbe l’esatto bersaglio della parola filosofica e di critica sociale dell’intellettuale italiano. L’élite che dovrebbe occuparsi delle traduzioni e della diffusione dei suoi scritti è quella stessa élite che porta per mano il proprio Paese verso disastri e una distruzione culturale e morale ancora peggiori di quelli che Pasolini lamenta a proposito dell’Italia nelle sue opere, soprattutto quelle di riflessione sociale e filosofica. Pasolini era il poeta dei «non integrati», delle poche forme resistenziali contro l’uniformità sociale e culturale del consumismo capitalista che inghiottiva l’Italia del periodo.

Invece l’Albania è nel pieno di una trionfante campagna di distruzione culturale, di distruzione di tradizioni, di eliminazione delle diversità autentiche e di disseminazione di una diversità mediocre, preventivata e spesso copiata. È la propria classe intellettuale e politica, quindi l’élite che conduce l’Albania verso tutto quello che è il male tremendo secondo il pensiero pasoliniano: la medietà che annulla le differenze e impone l’omologazione.

Gli aspetti fondamentali dell’estensione di una simile pericolosa visione media e mediata della vita, li si vede nell’indifferenza, o peggio nella volontaria e cosciente emarginazione degli aspetti “forti” della cultura nazionale albanese. Mi riferisco all’abbandono di elementi della cultura tradizionale provenienti delle zone di Valona e di Scutari, le uniche due identità forti (storicamente e demograficamente) del Paese, in grado di creare la barriera culturale necessaria per il pluralismo e la molteplicità narrativa del sé nazionale, invece appiattita e costruita artificiosamente attorno al tiranesimo (inteso come fenomeno del rigonfiamento della capitale).

Il trionfo della medietà in Albania è legato, oltre alla mediazione forzata del consumismo piramidale, anche alla natura stessa della costruzione del nuovo mondo albanese attorno al vuoto di un’identità debole, come sostiene Çabej, per il quale Tirana e suoi dintorni rappresentano l’erosione identitaria fra due elementi resistenziali, due argini culturali albanesi Nord-Sud. Infatti, diversamente dall’Italia «centrale», che è stata sempre non una fusione identitaria ma un’entità dotata di una sua essenza con il suo elevarsi a paradigma d’italianità sia nella cultura alta che in quella popolare, in Albania non è stato assolutamente così: l’Albania “media” è sempre stato non un luogo “centrale”, e questo lo dice lo stesso vocabolo usato per definirla, cioè appunto «Albania media» e non «centrale» come nel caso italiano. E il linguaggio è un terribile indagatore dell’inconscio collettivo molto più di quel che vogliamo far apparire con le riflessioni razionali.

Conseguenza fondamentale di questo appiattimento è appunto l’incapacità di comprendere la dimensione alternativa dell’espressione e del linguaggio pasoliniani, sempre oscillanti fra lingua letteraria e lingue «altre». In Albania non c’è stata una valorizzazione delle realtà linguistiche proprio perché, in quegli anni postregime, non è esistito un rispetto per la dimensione letteraria: la letterarietà, da una parte, per anni è stata svalutata come paradigma – con politici e intellettuali che si esprimevano tranquillamente ognuno nel proprio dialetto, non per una scelta ma per ignoranza – dall’altra, la letterarietà è stata tiranizzata, cioè inquinata da forme storpie e medie di un dialetto astorico.

Di qui il tentativo di inserire un certo slang dialettale del Nord (forse) nella traduzione albanese di Ragazzi di vita, a sostituire il romano dell’originale, ma ovviamente con scarsissimi risultati. Ben molto più riuscite sono invece ultimamente le poesie tradotte nella lingua letteraria albanese, da parte di Aida Baro e Edon Qesari con la raccolta “Mish dhe qiell”.

Quindi la dimensione media e mediocre che si estende dalla capitale verso le realtà “forti”, e annulla e appiattisce le diversità attraverso il potere, è proprio quel potere che Pasolini combatteva. La parola pasoliniana è una condanna delle dinamiche di medietà e annullamento delle diversità orizzontali, ma è soprattutto la parola della inammissibilità della dimensione verticale e del potere, cioè dell’ingiustizia sociale.

Ma ogni forma di voce nell’Albania del dopo regime si è costruita perlopiù in combutta con il potere, affiancando come un cane da compagnia ogni forma di dominio e distruzione culturale e sociale. Il potere in Albania, nel senso di potere immeritato e agente sui più deboli e sulla “vita”, il potere omologante non ha avuto nessuna barriera, nemmeno da parte delle classi intellettuali, che non soltanto non hanno colto questo “annullamento” culturale, che ovviamente è qualcosa che richiede finezza, ma nemmeno si sono opposti alle ingiustizie bruttali che produsse questo tipo di potere. In Albania non poteva esistere un “Io so!” pasolinano, non perché qualcuno nel Paese non sapesse “i nomi”, ma appunto, li conosceva anche molto bene personalmente.

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Ormai invece va di moda

Il perché dell’attuale diffusione modaiola delle opere di Pasolini e l’interrogativo su cosa se ne comprenda realmente, sono domande che meriterebbero un linguaggio, appunto pasoliniano, seppur impossibile in questa sede. Il momento doveva arrivare anche semplicemente per una questione di interessi delle case editrici o perché oramai è rimasto fra i pochi grandi italiani non “importati”.

Dopo quella omologazione della società da parte del potere, che non ne ha mai avuto oppositori, è nella natura stessa del potere, gattopardesco, esigere una finzione. La finzione deve entrare ora in moto, ma serve una critica della realtà perché il potere stesso possa abbracciare il cambiamento. In questo momento storico sono gli stessi con «le facce da figli di papà» (Pasolini) – categoria pressoché sconosciuta e disprezzata una volta nella cultura albanese, ma oggi dominante – che conducono, oltre il dominio ingiusto anche la finzione del cambiamento albanese, ora che hanno ereditato il potere dei padri.

Naturalmente nessun cambiamento significativo, ma semplicemente una retorica o immagine che invade sia il campo della morale, politica e il sociale, sia quella culturale e della salvaguardia della diversità e delle differenze. Pasolini ora serve a giustificare questo meccanismo in atto. Naturalmente non solo non si potrebbe capire e non si capisce il Pasolini e il pasolinismo, ma c’è un malinteso di fondo. Pasolini che, combatteva ogni forma di verticalità del potere schiacciante verso il basso e i deboli; che odiava ogni forma di omologazione consumistica e finzione della diversità, è ripreso in Albania a giustificare proprio questi aspetti.

Cioè la critica pasolinina che non era servita a impedire lo scempio e nemmeno alla funzione di barriera alla opposizione culturale, verrà usato per le necessità di risistemazione artificiosa e controllata propria del potere. Infatti ogni forma di salvaguardia di diversità e di esaltazione culturale in Albania è verticale e controllata, voluta e costruita, e cioè l’esatto orrore pasolinano, per di più ad opera dalle nuove e mediocri classi medie.

È il potere omologante quel che vuole proteggere e vantare è una diversità fittizia ma presentabile, dove la dimensione consumistica è diventata addirittura finzione (non)identitaria, e lo fa attraverso l’«invenzione delle tradizioni», direi, uccidendo le tradizioni stesse. In questo letteralmente serve la critica pasoliniana e la retorica contro la distruzione delle differenze e l’omologazione, del dominio dell’ideologia del consumo e dell’immagine, per far rimedio attraverso la diversità costruita dall’alto oppure alle differenze per immagini e quindi superficiali, “fotografate” per le medie e presentabili culture alternative albanesi.

L’esempio cardine è l’estensione tentacolare che da Tirana si estende ovunque essa possa “comprare” e “consumare” inventando cultura per un sé manchevole, all’insegna della decostruzione dell’autentico, ad opera del “personalizzato”. Gli esempi della distruzione della cultura e della diversità autentica sono infiniti, alcuni distruggono e basta ed è, paradossalmente, meno peggio della costruzione di diversità fittizia e, come si diceva, non identitaria e scopiazzata.

Quel che succede in ambito culturale è simile a quella ossessione per i giardini pubblici in Albania, dove si distruggono boschi e colline verdi col cemento, ma si chiama natura gli alberi piantati nell’asfalto, o i parchi artificiali. Pasolini quindi, oggi serve a giustificare questa costruzione fittizia della diversità, questo possesso di cultura artificiosa da parte degli stessi che hanno distrutto l’autentico.

Alla critica pasoliniana contro la distruzione della diversità si cerca di rimediare con la diversità costruita dall’alto. Ecco, è questo che avrebbe compreso dell’Albania uno che avesse compreso Pasolini realmente, il trionfo di una spicciolo-borghesia ignorante e senza radici, colpevole di ogni omologazione culturale in Albania.

Ecco il ritardo di Pasolini in Albania, ed eccolo divenuto moda.

Argomenti: Edon QesariEqrem ÇabejGiovanni BelluscioAida Baro
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