Arriva in Italia il primo romanzo tradotto dell’apprezzata scrittrice albanese Mimoza Hysa, per la traduzione di Durim e Esi Taci e pubblicato dalla casa editrice Besa.
Canticchia una musica e non voglio aprire gli occhi. Una musica che mi tende i nervi, ma non riesco nemmeno a parlare per farla spegnere. Poi sarà lontana. Puoi dire ai cortili degli altri di diventare sordi? Puoi chiedere al mondo di zittirsi? È la tua canzone, Marsina, mi segue anche nella tomba. Perché questo luogo bianco, che odora di iodio ovunque, è la mia tomba aperta. Si è aperta quando di te si è saziata. Con la vita e con il respiro. Così ti ho lanciato sulle gambe il nastro, è uscito dalla cassetta e si è srotolato. È stato crudele che non capissi la mia condizione…
Sono limpide e glaciali le parole pronunciate da Martina, con il suono della domanda e le vesti della sentenza. Frasi che aprono una lunga riflessione, condita con il giudizio e l’accusa, senza trascurare la commiserazione. Martina parla di Marsina, la sua gemella. Sono due sorelle, figlie di un militare d’Albania, nel periodo storico in cui essere un ufficiale significa tante cose. Tra queste tante, ve ne è una importante: stare dalla parte del dittatore. Quanto importa questo alle gemelle? Quel padre è amato, è adorato, quello stesso uomo autoritario, che piange sul petto della figlia, pensandola in pericolo, addirittura morente.
Lì la sua testa si era lasciata andare, sul mio petto. Gli era sembrato che avessi superato il limite ed era crollato. Tu non hai visto il generale crollare. Come una kullë del nord rasa al suolo. Era più dura della morte quella visione. Sono diventata una pietra. Qualcosa aveva inumidito il lenzuolo bianco sul mio petto. Proprio in quel momento, si sono scambiati i ruoli. Io ho vinto grazie al destino quel ruolo che le ragazze conquistano con il padre solamente alla vigilia della vecchiaia.
Il generale, tanto temuto, tanto rispettato crolla, in lacrime e per Martina è una vittoria, una conquista. Quella madre, invece, tanto pietosa, tanto buona, da non avere quasi nulla per essere abbracciata. Martina e la sua compostezza statuaria, quella cosa ghiacciata, immobile, fredda. Due gemelle all’opposto, che vivono durante il periodo di Enver Hoxha, perse nell’affetto per il loro padre e per un uomo che è l’antitesi del genitore. Il suo nome è Jeten, la figura che le divide, che appartiene a una famiglia macchiata, Jeten oggetto di un amore che separa. Davvero le slega? Veramente quest’uomo frammenta un’unione? Oppure le gemelle sono divise da sempre?
Un romanzo potentemente introspettivo questo Le figlie del generale, di Mimoza Hysa, il primo libro tradotto in italiano della scrittrice e pluripremiata traduttrice albanese. Due gemelle sono le indiscusse protagoniste di una trama, caratterizzata da un inappuntabile equilibrio tra fabula e intreccio. La prima, che è l’ossatura della storia, segue un ordine cronologico privo di ogni oggettività e guidato dalla sottile linea delle emozioni. Il secondo è vivo, coinvolgente, capace di prendere per mano il lettore e catapultarlo nella vita delle protagoniste. Sembra quasi di ascoltare Martina, di percepire il suo tono accusatorio, la sua acuta freddezza; pare quasi di guardare una Marsina danzante e quasi di sentire le note di quella musica tanto amata e tanto accusata.
Bella la creatività dell’autrice, che segue le vicende di una storia ben precisa, a cui la Hysa ha saputo dare un’impronta di ampio respiro, riuscendo a destreggiarsi amabilmente tra fatti narrati e le più vive sensazioni, permettendo ai personaggi di muoversi sulla sottile linea di demarcazione tra il bene e il male, il cuore e la mente, gli obblighi e la volontà e quella dei più reconditi desideri umani.
Buona la capacità descrittiva della scrittrice, che pur non avendo una penna maestra, riesce a disegnare in maniera cristallina i personaggi, dai contorni opportunamente delineati. Ben concatenati i concetti espressi, ogni vicenda conosce la sua giusta collocazione, in un libro che rapisce il lettore, portando con sé la sua avidità di proseguire, pagina dopo pagina.
La narrazione è ambientata nell’Albania di Enver Hoxha, durante gli anni neri del Paese delle Aquile. Un periodo durato 45 anni, dove tanto non è stato quello che sembrava. Una frase calzante per questo romanzo, in cui alcune cose non sono come appaiono. Mimoza Hysa mette la dittatura nel racconto, avvolge il romanzo con l’olezzo del totalitarismo, conficca in ciascun rigo il concetto di regime, senza parlarne mai. Eppure, si avverte l’occhio sul dispotismo, lo sguardo sulla prepotenza che arriva da dentro casa. L’autrice narra di dittatura, senza nominarla.
Uno stile di scrittura lineare, che segue i suoi binari senza mai fuoriuscirne, una voce semplice quella della Hysa, senza pretesa alcuna, atta a portare nero su bianco quello che sente, non centellinando le emozioni.
L’esordio di Mimoza Hysa in Italia non poteva essere migliore, con un buon romanzo, accattivante e dagli sviluppi inattesi, tutto da scoprire, che consegna una lettura avvincente, con ottimi spunti di riflessione.
