Shqipëria e rigjetur – zbulim gjurmësh shqiptare në kulturën dhe artin e Venetos në Shek.XVI – Albania ritrovata – recuperi di presenze albanesi nella cultura e nell’arte del cinquecento veneto. Edizione bilingue – di Lucia Nadin.
Il sottotitolo: “Recuperi di presenze albanesi nella cultura e nell’arte del Cinquecento veneto” chiarisce il contenuto del volume, che è di particolare interesse per i venezianisti e gli storici dell’Albania.
Il testo italiano è stato tradotto in albanese da Pëllumb Xhufi
Il volume è suddiviso in tre capitoli ed una appendice ed è corredato ed arricchito da un ampio e interessante corredo iconografico tratto da originali conservati nell’Archivio di Stato di Venezia, nell’Archivio di Stato di Padova, nella Biblioteca dell’Istituto dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, nella Biblioteca del Museo Correr di Venezia e nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia.

Il libro prosegue una indagine già a suo tempo avviata da Lucia Nadin nel suo volume “Migrazioni e integrazione. Il caso degli Albanesi a Venezia (1479-1552), Roma, Bulzoni, 2008”, nel quale l’autrice aveva fatto luce sulle caratteristiche della emigrazione albanese nelle terre della Serenissima a partire dal tardo Quattrocento.
Dopo il secondo assedio a Scutari nel 1478 e la successiva cessione della città ai Turchi, il trasferimento di genti dalle terre epirotiche verso le terre della Serenissima fu fenomeno “di massa”.
Il Senato veneto, con una mirata politica, favorì il processo di integrazione degli esuli nella realtà sociale ed economica della Serenissima Repubblica, tenendo conto delle competenze lavorative dei singoli nel Paese di provenienza. Avvenne di conseguenza una veloce metabolizzazione tra veneti e albanesi e già alla seconda generazione di immigrati l’acquisita cittadinanza, con l’italianizzazione dei cognomi, concorse in molti casi a far sbiadire i connotati di origine.
La patria di luogo fu per tutti, nell’immediato, meta da raggiungere; la patria di origine, nei decenni successivi, fu per alcuni, soprattutto i più acculturati, valore di identità da recuperare; a volte anche in una non sopita speranza di rientro. Una storia dunque profondamente diversa da quanto avvenuto per gli arbereshe nel sud Italia.
Da queste premesse la Nadin scava tra protagonisti di cultura e di arte della prima metà del Cinquecento veneto, in un’ottica di “restituzione” a quell’Albania che, entrando geo-politicamente a far parte della storia ottomana, perdeva gli stretti legami che aveva avuto per secoli con le vicende dell’occidente: erano stati legami ben documentati dai suoi statuti cittadini medioevali, da quelli trecenteschi di Scutari nello specifico, il cui testo – del quale fino ad allora se ne conosceva l’esistenza ma che era andato disperso alla caduta dello Stato veneziano – fu ritrovato nel 1995 proprio dalla studiosa veneziana nella Biblioteca del Museo Correr di Venezia.
Avvalendosi di una lunga, pregressa competenza di studio di testi letterari tra Medio Evo e Rinascimento, l’autrice ricostruisce l’attività di Bernardino (de) Vitali, l’editore dello storico umanista albanese Marin Barleti. Il Vitali fu attivo a Venezia dagli ultimi due decenni del Quattrocento agli anni quaranta del Cinquecento, nel tempo dunque che vide Venezia capitale europea della stampa.
All’inizio dell’attività editoriale, Bernardino e il fratello Matteo si firmarono: “de Vitalibus vulgo gli albanesoti”, esplicitando la loro origine; poi, con l’orgoglio della raggiunta cittadinanza, si firmeranno sempre “veneziani”.

Nadin afferma che Bernardino Vitali ebbe la fortuna di avere ai suoi esordi la protezione e l’indirizzo di uno dei maggiori protagonisti della cultura veneta del tempo: Girolamo Donà, che ebbe un ruolo politico di grande importanza in quanto ambasciatore di Venezia a Roma presso vari papi e presso Giulio II. Girolamo Donà volle come precettore del figlio l’albanese Marino Becichemo.
Donà fu raffinato umanista, cultore delle arti e della musica. Bernardino Vitali, non a caso, sarà anch’egli editore di pregio di testi musicali. Di lui Nadin recupera 209 titoli che coprirono aree culturali molteplici: da quella medico-filosofico-scientifica, a quella letteraria e teatrale, a quella religiosa, a quella musicale.
Interessantissimo l’apparato figurativo di alcune opere, in cui non mancano richiami specifici alla terra di origine, come nel caso del profilo della rocca di Scutari in “Epistole evangelii volgar historiade” del 1510.

Le relazioni tra patrono (Donà) e protetto (Bernardino Vitali) chiamano in causa anche Marin Barleti. Lucia Nadin ritrova nelle carte di archivio veneziane e padovane la data esatta della nomina a parroco di Barleti, che era stato ordinato sacerdote in terra veneta dopo il forzato abbandono di Scutari: entra nella chiesa parrocchiale di Santo Stefano di Piovene (territorio vicentino, diocesi padovana) il 28 settembre 1494.
Testimonianza di Marino Barlezio in qualità di parroco della chiesa di Santo Stefano di Piovene, 1495. Padova, Archivio di Stato.
I rapporti tra Barleti, l’editore Vitali, l’umanista Donà aprono a nuove, inedite letture dei testi di Marin Barleti: dal frontespizio della Vita di Scanderbeg (in cui si celebra il movimento della storia dalla Roma pagana alla Roma cristiana di Costantino), all’identificazione degli autori che firmano i versi dedicatori dell’opera (Pietro Regolo cancelliere del vescovo di Padova e Domenico di Arzignano, medico umanista), alle xilografie di accompagnamento, alla precisa datazione della stessa Vita: 1510.

L’indagine di Nadin passa dal mondo dell’editoria a quello delle arti: scultura e miniatura e anche in questo caso protagoniste sono due personalità appartenenti a famiglie oriunde dall’Albania.
Paolo Campsa, la cui famiglia proveniva dal distretto di Samerissi presso Scutari, fu scultore del legno, oggi ritenuto dalla critica il più rappresentativo scultore del legno del rinascimento veneto. Suoi splendidi altari, suoi imponenti polittici, sue Madonne si ritrovano in diverse località: a Venezia (Isola di Torcello, Basilica di Santa Maria Assunta), in vari paesi del Trevigiano e del Friuli, in località dell’Istria, in Puglia (Monopoli).
Anche il padre di Paolo Campsa era stato “fabbro legnaio”, a Scutari: è possibile intravvedere nell’opera di Campsa riflessi della scultura lignea esistente nelle tante chiese di Scutari e dintorni, di cui è stata persa ogni documentazione? Un lavoro a ritroso, di recupero di tracce di civiltà albanese: una sfida di conoscenza affascinante, che con certosina pazienza Nadin sta in questi anni conducendo e proponendo.


Raffinato artista anche il presbitero Giovanni Vitali, forse nipote dell’editore Bernardino, che a partire da metà Cinquecento si afferma a Venezia come calligrafo e miniaturista; è lui il trascrittore della Matricola della Scuola degli Albanesi nel 1552; è lui che “illumina” pagine di corali, di orazionali, di commissioni dogali conservate negli archivi veneziani che lo hanno reso noto negli studi internazionali del settore. Anche nel suo caso: bresciano (o veneziano) si è scritto, ma appartenente a famiglia oriunda dall’Albania, si deve aggiungere.

Il volume si chiude sul primo libro scritto in lingua albanese: il cosiddetto Messale” di Gjon Buzuku, pubblicato nel 1555. Nulla si era fino ad oggi detto sulla identità dell’autore e mai era stato accertato il luogo di stampa. Nadin dimostra che il libro fu pubblicato a Venezia città, individua i testi da cui furono attinte certe immagini, propone l’identificazione dell’autore e del luogo in cui poteva essere ubicata la sua vita di religioso, traccia il quadro in cui ha potuto maturare l’idea dell’opera, fissando date e collegamenti. Ne emerge un panorama di rilancio della albanesità – in tempi in cui essa andava sbiadendo – e di volontà di recupero di memoria storica, promosso dalla comunità albanese a Venezia. Questa circostanza d’altronde era stata nel passato ipotizzata da Justin Rrota, da Eqrem Cabej, da Injac Zamputi, da Mario Roques. Fu certo, dimostra Nadin, in quell’opera di rilancio di memoria di Albania, il contributo della famiglia Angeli, proprio allora in prima linea in tale progetto.
Il libro ha in epigrafe: “Alla città di Scutari, perché il recupero di storia è rinnovo di speranze”: una dedica che richiama la partecipazione con cui da anni l’Autrice conduce le sue ricerche nella volontà di restituire all’Albania porzioni della sua storia.
Nella prefazione Lucia Nadin precisa: recuperare oggi i profili di oriundi albanesi protagonisti di cultura in terra veneta non appartiene alle rivendicazioni di nazionalità, essendo altra la storia, in quanto sostanziata dal metabolismo delle diversità. Significa piuttosto far opera di restituzione storica a un Paese, l’Albania, che già dal lontano Trecento, come insegnano gli Statuti di Scutari, era pienamente inserito nella realtà economica, sociale, culturale del mondo mediterraneo.