Lea Ypi, filosofa e scrittrice, si laurea all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, conseguendo, in seguito, il dottorato di ricerca all’Istituto Universitario Europeo. Giornalista per The Guardian, il suo campo di ricerca spazia dalla filosofia dell’Illuminismo alla teoria politica normativa e alle questioni di giustizia globale.
Professoressa di filosofia politica alla London School of Economics and Political Science, nel 2022 riceve il Premio Ondaatje, dedicato alle opere capaci di evocare lo spirito di un luogo. Artefice del riconoscimento il libro Libera, in cui l’autrice racconta il passaggio dalla giovinezza all’età adulta durante la caduta del comunismo in Albania.
Libera, divenuto sin da subito un caso editoriale, ha destato le critiche di una parte intellettuale albanese, che ha visto, nel racconto della Ypi, una velata nostalgia nei confronti del passato regime comunista. Nell’intervista, che ci ha gentilmente concesso, Lea parla di Libera, del suo concetto di libertà e di Albania, facendo un corposo riferimento al prossimo Salone del libro di Torino, che la vede coinvolta in due incontri, nel contesto del programma riservato all’Albania ospite d’onore della più grande fiera italiana dell’editoria.
Prof.ssa Ypi, perché decide di scrivere Libera?
Avevo in mente un libro filosofico sulle idee sovrapposte di libertà, nelle tradizioni di pensiero liberali e socialiste; quando, però, ho iniziato a scrivere, quelle stesse idee si sono trasformate in persone. Ero a Berlino durante la pandemia e per sfuggire alle interruzioni costanti dei miei figli, lavoravo chiusa in un armadio. È lì che ho pensato quanto la libertà non sia poi così complicata e astratta come spesso appare; ci sono momenti della storia in cui diventa una questione esistenziale.
Sono istanti, più o meno lunghi, che ci permettono di relazionarci al passato in modo diverso dal solito, interrogandoci sul significato di tutto quello che ci circonda, sui luoghi comuni, sul modo in cui veniamo formati, sulle percezioni, grazie alle quali diamo un senso al mondo. Il mio libro è una riflessione sul significato di libertà, che si snoda intorno alle storie della mia famiglia e dell’Albania, che ho voluto portare come esempi concreti.
Nel volume ci sono due storie che vanno di pari passo, la sua e quella dell’Albania e altrettanto di pari passo vanno la libertà individuale e quella del popolo. Secondo lei, la libertà è conquista o delusione? In fondo, il post comunismo ha dato molte speranze, ma ha bruciato tanti sogni.
In realtà, la libertà, nella storia, si veste sia con i panni della conquista che con quelli della delusione. Io credo sia soprattutto un percorso di ricerca, individuale ma anche collettivo, ed è proprio questo percorso che il libro traccia, con i suoi alti e bassi.
I vari personaggi rappresentano i modi diversi di intendere la libertà: mia madre la recepisce nel classico concetto di non-interferenza, profilandola come negativa, mio padre ha una visione positiva, guardandola come una possibilità di sviluppo e di pari opportunità e i loro dilemmi assumono forme diverse, in momenti storici differenti.
Mia nonna, alla quale ho dedicato Libera, ha un’idea Kantiana, in cui anche io mi ritrovo: la libertà è legata indissolubilmente alla responsabilità morale. È su questo senso di responsabilità che si costruisce la critica alla società in cui viviamo.
Lei è molto giovane quando si rende conto che sta terminando l’epoca della dittatura, mentre vive in una famiglia variegata. Come hanno vissuto i suoi cari le trasformazioni politiche e sociali di quel tempo e di riflesso, come le ha vissute lei?
La mia era una famiglia vittima del sistema. Mio nonno paterno era un socialista, laureato alla Sorbona, che conosceva Enver Hoxha personalmente; fu condannato a quindici anni di carcere subito dopo la fine della guerra. I parenti di mia madre erano grandi proprietari, che videro i loro beni interamente confiscati e costretti, quindi, a vivere nella miseria.
I miei genitori vivevano in ostaggio del passato, che impediva loro di guardare al futuro. La fine del comunismo ha segnato l’apertura verso un mondo che avevano sempre sognato e verso la possibilità di viaggiare e di esprimersi liberamente. I miei familiari hanno sofferto la transizione come tutti, ma le difficoltà erano accompagnate da grandi speranze.
Quanto ha influito sulla sua evoluzione personale ciò che è accaduto nella prima parte della sua vita? Lei era una bambina felice, convinta che il dettame del regime fosse sacro e di vivere in una famiglia pro dittatura: a un certo punto, però, si è ritrovata in una realtà completamente differente.
Scoprire di aver vissuto all’ombra di una ideologia, che faceva passare per verità gli slogan di propaganda, è stato una specie di viaggio platonico fuori dalla caverna. Volevo essere una cittadina modello e i miei genitori incoraggiavano il mio zelo, pur sapendo che un giorno le strade si sarebbero chiuse per via di quella che veniva chiamata “biografia”, il destino collettivo che segna la sorte dell’individuo.
La storia ha voluto che quella scoperta venisse fatta in condizioni molto diverse da quelle che immaginavano i miei genitori e che fosse una rivelazione improvvisa, mista alla delusione e al senso di smarrimento per essere stata ingannata così a lungo.
Non so come questo possa influenzare l’identità personale nel tempo. Forse coltiva una sorta di scetticismo in merito alla verità, una certa diffidenza verso le apparenze, da cui sorge la tendenza a pensare che qualcosa sia sempre diverso da come ci sembra. Credo che la percezione di questo dualismo, tra apparenza ed essenza, abbia svolto un ruolo importante nel mio successivo interesse nei confronti della filosofia critica.
Subito dopo la pubblicazione di Libera, lei è stata pesantemente attaccata, in quanto una fetta di critica albanese ha visto troppa leggerezza nella modalità di trattare tematiche delicate. Come lei abbia reagito a questi commenti, è noto a tutti noi: le chiedo, quindi, da cosa è dettata la sua scelta stilistica?
E’ dovuta in parte al passaggio dalla scrittura accademica a quella letteraria e in parte al tipo di argomentazioni che il libro si propone di esplorare. Volevo scrivere una storia sulla libertà, in cui si potessero sentire molte voci parlare liberamente, ciascuna con la propria interpretazione degli eventi, il proprio sistema di valori e il proprio dialogo con il pubblico.
Per molti versi Libera è un analisi della libertà, come promessa e come illusione e uno studio dei pericoli del paternalismo autoritario. Perciò, era importante scrivere in modo da evitare il paternalismo e l’autoritarismo, anche nei confronti del lettore. Il punto di vista della bambina era utile, per evitare di avere un’unica voce autoriale imposta agli altri personaggi del libro.
Un bambino non ha un’autorità propria, ma risponde ai comandi degli adulti e non può essere accusato di distorcere gli eventi che ricostruisce da testimone. Credo, che la scelta stilistica si presti bene sia all’analisi di un contesto polarizzato come l’Albania, che alle questioni che sorgono dal problema controverso su come relazionarsi nei confronti della memoria collettiva.
Ha dichiarato che il concetto di libertà affonda le sue radici nel passato. Cosa significa esattamente?
Lo spiega l’epigrafo del libro, una citazione di Rosa Luxemburg, che a sua volta riprende un’analisi di Marx. Egli ha scritto che gli uomini non fanno la storia liberamente, ma venendo influenzati da ciò che si è costruito nel passato, dai fantasmi che pesano sulle loro esistenze. Rosa Luxemburg fa riferimento alla frase di Marx, spiegando che sebbene sia vero che gli esseri umani non costruiscono la storia liberamente, sono pur sempre loro che la creano.
La dialettica tra determinismo e agire liberamente risiede in questo concetto. Per comprenderla è importante relazionarci al passato nel modo giusto, senza glorificazione, né rancore. Se intendiamo la libertà come dimensione in cui si afferma la nostra autonomia morale e come orizzonte di azione futura, è necessario imparare dagli errori del passato.
Come guarda all’Albania di oggi?
Siamo passati da una mancanza di libertà dovuta all’intervento verticale di una specificità – lo stato o il partito, oppure i membri della nomenclatura, non è importante chi – a un tipo di oppressione orizzontale, in cui il controllo sociale dipende da strutture impersonali di potere, molto più difficili da tenere a bada e anch’esse dannose per la libertà. Come il resto del mondo capitalista in cui è integrata, l’Albania è una società molto disuguale, in cui il potere politico ed economico sono concentrati nelle mani di pochi; si tratta di una oligarchia più che di una democrazia.
La libertà di parola, di associazione, come quella di voto valgono solo superficialmente quando ci sono profonde asimmetrie di potere, che condizionano e inibiscono la capacità dei cittadini di influenzare le decisioni politiche. Inoltre, viviamo in un periodo di crisi multiple e interconnesse, sia nazionali che internazionali, in cui stati deboli, come l’Albania, non sono in grado di plasmare il proprio futuro, senza essere in una posizione vulnerabile al potere degli stati più forti.
Trent’anni dopo l’arrivo della democrazia liberale, è giunto il momento di riflettere sui fallimenti storici, sia del socialismo di stato che del liberalismo di mercato e di difendere un nuovo modello e nuovi soggetti politici capaci di farsene carico.
Sta per avere inizio il Salone Internazionale del libro di Torino, dove l’Albania sarà Paese ospite d’onore e lei parteciperà, su invito del Ministero della Cultura albanese. Cosa pensa di questa iniziativa da parte della manifestazione?
I rapporti storici tra l’Albania e l’Italia sono profondi e hanno un ruolo importante nella letteratura albanese, sia dal punto di vista dei temi, che da quello della formazione di molti scrittori, alcuni dei quali hanno scelto di studiare in Italia o di scrivere in lingua italiana.
Si tratta di un legame costruito sugli ideali, l’amore e l’ispirazione, su cui pesano il passato distante dello sfruttamento coloniale e quello più vicino dell’ostilità, del sospetto e della xenofobia. Il periodo di studi in Italia è stato fondamentale per la mia formazione intellettuale: è alla Sapienza che ho scoperto gli scritti di Benedetto Croce e di Antonio Gramsci.
Credo che iniziative come questa del Salone, che mirano ad approfondire la conoscenza reciproca tramite la letteratura, siano il modo migliore per sviluppare un’identità culturale, che vada oltre la separazione linguistica e geografica e che permetta a entrambi i popoli di affrontare meglio le sfide comuni.