Durim Taci ha studiato filologia e cinematografia a Tirana: è uno scrittore oltre che traduttore in albanese, dall’inglese e dall’italiano, di oltre sessanta titoli letterari pubblicati. Tra le sue traduzioni dall’italiano all’albanese spiccano autori di rilievo come Italo Svevo, Alberto Moravia e Alberto Bevilacqua. Ha tradotto anche numerosi romanzi di successo di Paulo Coelho per la casa editrice Toena di Tirana. Nel 2000 ha lasciato l’Albania e oggi vive a Bergamo.
Taci scrive sia in albanese che in italiano e alla Fiera del libro di Tirana abbiamo avuto l’occasione di fare una bella chiacchierata. Buona lettura.
Tu hai una maniera particolare di preparare la stesura di un libro, alternando l’albanese all’italiano. Perché questa scelta?
Penso che non sia una scelta, ma una naturale necessità, quindi arrivata da sé e non cercata. Dopo ventidue anni in Italia, la lingua italiana ha assunto un’importanza rilevante nell’espressione quotidiana, nella scrittura e in veste di seconda identità. Mi viene in mente Giorgio Orwell, che nel suo 1984 parla della capacità della lingua di plasmare l’identità della persona: in virtù di questo, sono sempre più convinto che questa modalità di approcciarmi alla scrittura sia giunta in modo naturale.
L’ambiente circostante mi influenza molto quando scrivo; definisco il paesaggio italiano “semantico”, il paesaggio dei segni direi, che mi porta verso la scrittura in lingua italiana come primo passo. Il secondo è il passaggio all’albanese, che è un po’ mi libera dalla limitante stesura in italiano. Facendo così, l’ultima versione, quella definitiva che leggerà il pubblico italiano sarà arricchita dalla comunicazione tra le due sponde, tra le due culture. Vivo tutto questo come un fenomeno transculturale.
Esiste un filo conduttore che lega la tua intera produzione letteraria, oppure esiste un messaggio che sempre hai voluto lasciare, indipendentemente dalla tematica trattata?
Sono diversi i punti che fanno da filo conduttore dei miei libri e sono da ricercare negli elementi di estetica, di narrativa, di metanarrativa e dico questo perché a me piace rapportarmi con le storie che racconto. I miei testi affrontano svariate argomentazioni e un altro elemento che li accomuna è il mio modo di procedere nella composizione del testo.
Quando scrivo un libro tengo sempre in considerazione il lettore e cerco di scrivere in maniera tale che sin dalle prime pagine, egli possa essere proiettato nell’attenta lettura del volume. Ultimamente in Albania sono usciti tre romanzi, che chiaramente non sono i primi. Ho già pubblicato tanti anni fa in albanese e considero questa una seconda fase della mia narrativa, in cui ho affinato anche le tecniche di scrittura, in particolare quelle visive.
Parliamo della scelta di utilizzare la seconda persona nella narrazione?
È vero, utilizzo la seconda persona poco usata in letteratura: ho iniziato a farne uso quando mi sono reso conto che davo sempre ai miei libri un’impronta autobiografica. Avvalermi della seconda persona mi da la possibilità di prendere le distanze da me narratore, di creare il personaggio e poi l’autore personaggio, trovando così una migliore e diretta comunicazione con il lettore.
Il primo intento di uno scrittore è quello di relazionarsi nitidamente con chi legge e tutto quello che uso nella stesura dei libri ha questo scopo. Mi piace che alla base delle storie narrate ci sia sempre l’ironia drammatica: tu autore ti rendi conto che il personaggio che hai costruito sta andando alla rovina e lui non lo sa. Questo crea la giusta adrenalina e quella spinta necessaria per andare avanti. L’ironia drammatica e quella narrativa mi permettono di distanziarmi dall’atteggiamento metanarrativo che inserisco in ogni mia produzione libraria.
Al fine di creare il giusto spazio per il lettore, in maniera tale che possa sentirsi attore della storia, utilizzo il frammentarismo: scrivere storie caratterizzate da frammentarietà mette da parte la cronologia temporale e l’influenza della causa-effetto, per lasciare spazio alla proiezione dell’emozione nella scrittura come elemento cronologico.
Pertanto, l’uso della frammentarietà, quello dell’ironia drammatica, della seconda persona che permette al narratore di stare comodamente nell’opera, della profonda ironia narrativa e della metanarrazione, mi ha permesso di dar luce a libri che mi hanno dato qualcosa e che spero possano sempre lasciare qualcosa a chi li legge.
Che rapporto c’è tra Durim scrittore e Durim traduttore? Quanto incide l’uno su l’altro?
Noi viviamo nella traduzione che ci permette di assumere un atteggiamento pronto al cambiamento e qualche volta alla fuga, che incide inevitabilmente sui contenuti. Io ho all’attivo 60 titoli letterari tradotti dall’inglese e dall’italiano. Sono partito con le traduzioni dall’italiano e poi ha guadagnato spazio l’inglese, perché le richieste editoriali sono orientate più verso questa lingua.
Ho tradotto diversi grandi autori, tra cui Italo Svevo, che considero un grandissimo scrittore, in quanto ritengo abbia fatto un’importante opera di modernizzazione della letteratura. Oltre a Svevo, mi sono occupato delle trasposizioni delle opere di Moravia e di Bevilacqua.
La traduzione è una vera e propria disciplina che giudico pari al giornalismo investigativo, perché l’opera di trasposizione scava nell’intimo del libro, proprio come le inchieste vanno a fondo nei fatti. Chiaramente, anche il mio percorso di studi condiziona la mia scrittura: ho frequentato la scuola di cinematografia a Tirana e questo bagaglio culturale influenza indubbiamente la stesura dei miei libri. Sicuramente Durim scrittore e Durim traduttore si plagiano, arricchendosi a vicenda e creando un interscambio tutto al positivo.