È un’altra dimensione letteraria di Fatos Kongoli. Certo, valutando il libro “La vita in una scatola di fiammiferi” in un ordine cronologico, dopo l’edizione del ciclo che lo stesso autore ha intitolato “Le prigioni della memoria” di cui fanno parte una serie di titoli della letteratura kongoliana del dopo ‘90.
E nonostante ciò “Vita in una scatola di fiamiferi” ha molti punti in comune con la parte precedente della sua attività letteraria, sempre con quella che ha inizio dopo gli anni ’90 e che segnò per lo scrittore una nuova fase della sua attività.

Da una parte “Vita in una scatola di fiammiferi” ha superato quel periodo storico nel quale lo scrittore aveva deciso di rifugiarsi per un tempo abbastanza lungo: il tempo della dittatura con tutti gli elementi propri e caratteristici, e in seguito anche la lunga fase di transizione in un’altra epoca, il passato prossimo degli albanesi. Dall’altra parte rimane legato a doppio filo sia all’una sia all’altra epoca.
Un giornalista, simile a tanti giornalisti albanesi dei nostri giorni, sta attraversando una forte crisi psichica. Essendo un personaggio kongoliano egli non può non essere predisposto alle crisi o a stati psichici gravi. Ma nonostante ciò la causa della crisi del personaggio, in apparenza causata dall’abbandono della compagna e dalle perdita del lavoro, va in realtà ricercata nel suo passato, e legittima il susseguirsi degli eventi.
Nel frattempo un incidente determina e mette la parola fine a tutto: si tratta di un omicidio, e autore ne è proprio il giornalista. La trama del libro si sviluppa in un breve lasso di tempo che inizia con l’indesiderato incidente, la morte accidentale di una ragazza di colore nella casa del giornalista, e termina nel momento della scoperta del responsabile del crimine, quindi una questione di giorni. Ma in questo breve arco temporale si svelano altri substrati cronologici che riguardano sia il passato che il presente del protagonista, il quale rappresenta un’intera generazione.
La trama si sviluppa intorno a un omicidio. Nonostante ciò, gli sforzi dell’autore del crimine (non proprio il classico dell’assassino) di nasconderlo; i rimorsi di coscienza e l’impulso di uscire allo scoperto e ammettere pubblicamente la propria colpa, susseguiti da ripensamenti per mancanza di coraggio; l’inusuale idea di inventarsi un gioco… e tanto altro fanno sì che il libro si posizioni all’estremo opposto di un romanzo poliziesco. Il romanzo non presenta caratteristiche di quel genere letterario, in quanto si tratta di un’opera profondamente psicologica.
Il libro si distingue per la stratificazione cronologica: il passaggio da un periodo all’altro, vicini e lontani tra loro, risulta naturale e non distrae il lettore. Interessante appare anche la soluzione data alla narrazione, la quale viene affidata sia al protagonista, in prima persona, sia allo stesso scrittore, in terza persona. Il giornalista racconta di sé, delle sue sensazioni, dei ricordi e degli eventi che ne hanno segnato la vita. Lo scrittore racconta di lui. Abbiamo dunque due prospettive, quella introversa del protagonista e quella estroversa del narratore che guarda al protagonista da debita distanza.
Sembra come se causa di questo tumulto sia una specie di angoscia e di soffocamento che trova origine nelle dimensioni schiaccianti degli spazi entro i quali l’uomo moderno è costretto a muoversi. I muri sono molto vicini, creando così una sensazione di claustrofobia. I muri dell’appartamento “quanto una scatola di fiammiferi” sono anche un’efficace metafora. Tutta la vita dei protagonisti del libro di Kongoli è, infatti, circondata di muri anche sotto il profilo psicologico; muri spessi e senza crepe, che non permettono di scorgere oltre. Proprio qui sembra che inizi il tutto, e non può che andare male. E la casualità aiuta…
Il personaggio cardine del nuovo libro di Kongoli, se non uguale ai personaggi precedenti, è il loro erede: è altrettanto perso, altrettanto cadavere… anche se ha un’altra età, molte nuove e promettenti opportunità, una strada in discesa davanti e, soprattutto, benessere materiale in confronto ai precedenti personaggi di Kongoli. È chiuso nel suo guscio, mentre l’ambiente e l’atmosfera che lo circondano porta la stessa tonalità di grigio degli altri libri: il grigio del subconscio del personaggio che si proietta all’esterno per avvolgere la realtà all’interno della quale si trova.
Il giornalista viene abbandonato dalla compagna, perde il lavoro e sta attraversando una crisi emozionale. Il suo passato è quello di un bambino senza tanti amici, passato perlopiù nella penombra di un seminterrato con una finestra (non casualmente) molto piccola. Le cicatrici della sua vita di bambino e adolescente hanno per contorno le termiti che corrodevano il legno del suo divano letto, con le quali sembra essersi instaurata quasi una relazione; da una chitarra senza accordi che lo accompagnava nelle lunghe ore di solitudine; da un solo amico anch’egli segnato da un’esistenza problematica a causa dei difficili rapporti tra i genitori; dalla puzza dei rifiuti del quartiere incendiati dallo scemo di turno; dalle pozzanghere che circondano il condominio; dagli appartamenti spaventosamente angusti e da altri personaggi, altrettanto problematici.
Questo personaggio non è affatto il giornalista appassionato col dono della scrittura. Non poteva esserlo, proprio perché uscito dalla penna di Kongoli. Anche la frequentazione dell’università è per il personaggio una fortuna insperata, regalo di un cognato in buona posizione, così come la casa, il locale di cui percepisce un cospicuo affitto, oppure la macchina, ricevuta in eredità dai nonni. Una bottiglia di Jack Daniels è sempre la compagnia del (ex) giornalista…in una parola è l’uomo perduto, di cui ogni cellula ne preavvisa fin dal principio la triste fine.
“Vita in una scatola di fiammiferi” è un altro frammento di vita albanese vista con l’oscuro filtro kongoliano, il quale, anche se arriva a noi vicino nel tempo, conserva una continuità con il passato remoto, problematico, angoscioso, traumatico e anche col passato prossimo degli albanesi, non meno traumatico, anche se per altre ragioni, che ci ha presentato in altri libri.
“La vita in una scatola di fiammiferi” è il settimo libro di Kongoli dopo “Il Perduto” (1992), “Il Cadavere” 1994, “Il drago d’avorio” 1999, “Il sogno di Damocle” 2001, “La pelle di cane” 2003, “Alla porta di San Pietro” 2005, che hanno sancito la nuova era creativa dell’autore.
